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AFRICA: TUKO PAMOJA, OGGI RESISTO

AFRICA, KANYA, NAIROBY. Uno sguardo soggettivo e interiore. I bambini parlano.

AFRICA, KENYA, NAIROBY. Uno sguardo soggettivo e interiore. I bambini parlano.

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Mi ero svegliata come sempre nel mio lettino, aspettando che arrivasse la Mamà per cambiarmi le mutandine piene di pipì e mettermi seduta sulla mia sedia. Ma poi ho percepito che nell’aria c’era qualcosa di nuovo, di inaspettato. E poi ho sentito quelle mani, quei baci che si avvicinano al mio viso. E quell’odore diverso della loro pelle. Non li potevo vedere, a causa dei miei occhi malati, ma ho capito che erano più di uno, le voci, le mani e la braccia erano tante.

Per un po’ di giorni sono arrivati, sempre meno timidi e con una voglia sempre maggiore di stare con noi. E così cerco oggi di essere meno rigida anch’io, e finalmente lo sento: qualcuno sta pronunciando il mio nome, ormai mi conoscono. Esplodo in un sorriso. Mi arriva un bacio sulla fronte e il solletico sulla pancia. Rido, rido forte e cerco di muovere questo mio corpo; ed ecco braccia che mi sollevano e mi stringono a sé. Che calore questi corpi…le sento sono braccia forse meno forti di quelle della nostra mamà, ma sono comunque vogliose di accogliermi. Mi godo questo momento, e intanto percepisco dalle grida e dalle risa degli altri bimbi che anche loro sono felici di quest’incontro.

Sono di nuovo seduta. E’ ora della pappa. Che fatica! E’ il momento più difficile della mia giornata. Sento il cucchiaino che mi si avvicina alla bocca, ciuccio un po’ e butto giù,  un altro cucchiaino e poi un altro ancora…mi sbrodolo e dolci mani mi puliscono la bocca. Strano: oggi non c’è fretta in questi gesti, ci sono parole sussurrate e pazienti. Altre braccia mi prendono, una voce canta una cantilena tranquilla, qualcosa che non capisco ma mi piace. Le braccia e il tono della voce ieri un po’ rigidi e impauriti, mi sembrano oggi sereni e distesi. Mi sdraiano e mi viene da piangere. Sto bene con loro e percepisco l’affetto reciproco…chissà se torneranno.

Uno dei 54 angeli ospiti delle Suore di Madre Teresa

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La sveglia stamattina è stata diversa da quelle degli ultimi sette anni. Mi sono svegliato con accanto le mie cugine e mia zia. Non so perché ma mia zia dice che è meglio che per un po’ dorma qui, nella loro baracca, e non in quella vicino la strada, dove sono cresciuto. Appena aperti gli occhi ho cominciato a sentire una strana eccitazione a cui non riuscivo a dare un nome. Mi giro sul materasso e davanti mi trovo uno strano cilindro con dell’acqua saponata con cui ieri abbiamo giocato insieme a degli amici. Ora ricordo: arrivano i wazungu. Ieri sono rimasti abbastanza stupiti dalla mia maglietta del Chelsea; credo che la metterò anche oggi per attirare la loro attenzione. Quando scendono dal pullman, infatti, sono subito circondati dai più piccoli o da alcuni miei amici un po’ più spavaldi di me e per me è difficile riuscire a conquistare una delle loro mani. Quella della maglietta… mi sembra una buona strategia! Sono timido e faccio un po’ fatica ad entrare nel cerchio, quando giochiamo, e mi pare di aver capito che anche loro sono molto diversi gli uni dagli altri: c’è chi canta davvero bene, chi stona un po’  ma sa stare bene con noi più timidi e c’è chi danza in modo folle e divertente, e chi invece… è proprio imbranato!!! Quando incrocio uno di loro gli chiedo sempre se si ricordano il mio nome e quando gli sento dire “Anton” mi sento soddisfatto e vedo che anche sul loro volto si accende un sorriso.

Eccoli. Li sento arrivare. La maglietta? Eccola. Sono pronto. Esco. Mi pare di capire che oggi faremo delle attività sportive. Su quelle sono forte. L’altro giorno sono rimasto appeso alla traversa per più di tre minuti e tutti mi hanno fatto i complimenti per la mia resistenza. Non mi importa molto, però, di quello che faremo. La cosa che voglio di più è poter passare un’altra giornata insieme a questi ospiti speciali. Che possano risalire su quel matatu bianco con un sorriso. Felici.

Dopodomani ricomincia la scuola. Loro saranno andati via. Non molto della mia vita sarà cambiato, a parte la baracca e qualche immagine nitida nella testa e qualche ricordo felice in più a cui guardare per uscire fuori dalla monotonia dello slum. E poi, lasciatemi dire un po’ presuntuosamente, che i veri protagonisti di questi dieci giorni siamo noi e che i sorrisi che noi abbiamo regalato loro sono la forza maggiore per andare avanti, sia nello slum sia nella loro frenetica vita occidentale.

un bimbo dello slum di Bangladesh

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Non è stato facile fare questo esercizio di empatia, entrando nelle teste e nei cuori di questi piccoli bambini, ma ci è sembrato importante cambiare il punto di vista per guardare quei giorni e il nostro servizio.

Spesso preferiamo guardare la vita con un occhio solo, è più facile. Preferiamo trovare risposte semplici, giudicare frettolosamente, agire per non pensare, dare peso a quanto diamo non valorizzando quello che riceviamo o pensare che sia tutto inutile e che nulla mai cambierà…            Oggi resistiamo, ripensiamo alla bellezza che abbiamo incontrato, al dolore e all’ingiustizia. Ripensiamo al giardino paradisiaco delle Sisters nell’Inferno dello slum di Kariobangi, alla scoperta delle “diverse abilità” di ognuno dei loro ospiti, alla Chiesa piena di persone e ai canti della Messa, al servizio incessante dei Padri Comboniani vissuto nella strada, alle urla gioiose tra le baracche di lamiera, alle nostre lacrime e i nostri sorrisi nelle condivisioni “infinite”, al nostro provare ad affidare e a rileggere la giornata alla luce della Parola.  Oggi guardiamo il mondo con entrambi gli occhi, senza paura. Oggi trasformiamo le paure in stimoli che ci aiutino a trovare un equilibrio nel nostro stile di vita, permettendoci di non dimenticare e né di vivere schiacciati dai sensi di colpa, facendo delle emozioni di un attimo, un caposaldo della nostra vita, vivendo il servizio e l’accoglienza con una consapevolezza sempre maggiore.

TUKO PAMOJA

GiacomoGiacomo Onlus  (africa)

 

Credits foto: Lavinia Inciocchi

2018-06-05T15:37:43+02:00