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AFRICA: TUKO PAMOJA, NON E’ MAI TROPPO TARDI PER UN PO DI UMANITA’

Africa, Kenya, Nairobi: L’HIV non è come le altre malattie. E’ un virus che marchia insieme al pregiudizio. Esiste una profonda paura associata a questa malattia, per questo vorrei che faceste un viaggio con me, per aprire occhi e cuore, per non avere paura, perché noi non ne abbiamo avuta.

Africa, Kenya, Nairobi: L’HIV non è come le altre malattie. E’ un virus che marchia insieme al pregiudizio. Esiste una profonda paura associata a questa malattia, per questo vorrei che faceste un viaggio con me, per aprire occhi e cuore, per non avere paura, perché noi non ne abbiamo avuta.

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L’HIV non è come le altre malattie. E’ un virus che marchia insieme al pregiudizio. La gente non ne parla volentieri. Esiste una profonda e recondita paura associata a questa malattia, per questo vorrei che faceste un viaggio con me, per aprire occhi e cuore, per non avere paura, perché noi non ne abbiamo avuta.

La mia prima esperienza in Kenya coincide con l’instaurarsi di solide e rigogliose radici nello slum di ‘Bangladesh’, punto di snodo di gran parte dei rapporti umani stretti nel tempo con famiglie e bambini. Particolarità di questa baraccopoli è quella di essersi ritagliata uno spazio intimo e isolato ai piedi di un fiume, lungo una delle strade più trafficate della periferia di Nairobi. Bangladesh non è una fitta foresta di lamiere, come Kibera o Korogocho, i bambini lungo il ciglio della strada, in estasi alla vista del nostro pullman, sembrano volerci invitare nel loro piccolo ritaglio di terra. Se un giorno dovesse esserci qualcuno ad accogliermi in paradiso, vorrei che fossero proprio questi piccoli angeli. Ma l’isolamento geografico di Bangladesh non nasce per scelta, né tantomeno per casualità. E’ il risultato di una forte ondata migratoria di persone affette da HIV, espulse dalle baraccopoli adiacenti e ghettizzate a debita distanza. Lo sforzo e la sofferenza sono dipinte negli occhi dei volti di chi convive con l’epidemia.

Nel 1978 , Moi diviene presidente del Kenya, in seguito alla morte del suo storico predecessore Jomo Kenyatta. In questi anni ha inizio la storia dell’HIV in Kenya. Proveniente dalle regioni equatoriali occidentali, il virus sfrutta Uganda e Tanzania, gli stati confinanti, come canale di diffusione. Contemporaneamente, nel 1982 il Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) introduce per la prima volta il termine “AIDS”, delineandone la sua trasmissione verticale (materno-fetale). Non confondete le due espressioni: l’AIDS rappresenta il quarto ed ultimo stadio infettivo-degenerativo del virus HIV e non tutte le persone sieropositive sono affette da AIDS.

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Nel 1984 viene identificato il primo caso di HIV in Kenya ma è indubbiamente il 1996 l’anno in cui viene raggiunto il livello storico più alto di individui contagiati: 10,5 % della popolazione. Fino al nuovo mandato dell’attuale presente Ururhu Kenyatta (2013), il Kenya ha attraversato un periodo di marcati alti e bassi: l’epidemia esiste, è un problema sociale diffuso, ma allo stesso tempo, la promozione, seppur tardiva, di terapie antiretrovirali, l’avviamento di diversi programmi di sensibilizzazione e diagnosi a cura dall’Onu e dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità, hanno contribuito a ridurne notevolmente l’incidenza.

Gli slum, però, costituiscono una realtà dimenticata dallo Stato e dalle autorità sanitarie, la maggior parte delle persone che abbiamo conosciuto non ha la possibilità di accedere alle terapie, in pochi hanno consapevolezza del proprio status sierologico, e soprattutto sono esseri umani che non hanno voce per gridare aiuto. È necessario dare loro voce. Penso all’immenso impegno degli assistenti sociali che, ogni giorno, fanno di tutto per tener viva, tra le persone, quella scintilla di consapevolezza di essere una realtà che, seppur in un contesto spietatamente emarginato, ha motivo di esistere. Motivo di avere una fede, di credere in un domani, di investire, quando possibile, nel futuro dei propri figli, donando loro amore e un esempio da seguire.

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Attualmente il virus colpisce 33,4 milioni di persone nel mondo, due terzi di esse (22,4 milioni) si trova nell’africa sub-sahariana. Il Kenya si posiziona al quarto posto tra i paesi con il maggior numero di infezioni da HIV: 58.000 sono i decessi provocati dall’AIDS nell’ultimo anno e le cifre parlano di 1,1 milioni di bambini divenuti orfani a causa dell’epidemia.

In questi momenti emerge un’umanità che va ben oltre quella che noi conosciamo, un’Umanità, con la ‘U’ maiuscola. Ho conosciuto famiglie che hanno accolto altri bimbi che hanno perso i genitori nella battaglia più importante, dove è il virus a vincere. Nonne e Madri che li crescono come figli propri, figli che li trattano come sorelle e fratelli, proteggendoli dalla tristezza di esser rimasti orfani. Le stesse famiglie che ogni giorno combattono con la povertà, e la malattia. Questa Umanità si riflette quasi incondizionatamente sul senso di famiglia che ho avuto e percepito finora. Lo smuove e lo modifica.

Sono le donne ad essere colpite in maniera del tutto sproporzionata dal virus. Basti pensare che nel 2012 il 6,9% di esse risultava essere portatore di HIV, contro il 4,2% degli uomini. Come accade in molte regioni dell’Africa sub-sahariana, donne e ragazze in Kenya sono oggetto di discriminazione in termini di accesso all’educazione e all’assistenza sanitaria. Il risultato è una evidente ripercussione psicologica, sempre più spesso, infatti, donne incinta rifiutano di sottoporsi al test per paura di essere discriminate, correndo il rischio di trasmettere ai propri piccoli il virus fin dalla nascita.

Quando sono partito per il Kenya, facevo fatica a credere che il 3,4% della popolazione (1,6 milioni di persone) convivesse con il virus dell’HIV, la stessa cifra che popola demograficamente l’isola di Cipro. Solo quando siamo stati invitati nelle “case” delle famiglie, durante le visite domiciliari, ho potuto rendermi conto del costo umano dell’epidemia. Tanti volti che raccontavano molteplici sfumature psicologiche. Depressione, accettazione, shock e negazione, trattativa e patteggiamento con il virus, rabbia e impotenza. La stessa rabbia che dovrebbe persuadere noi cittadini europei, al pensiero che un numero inaccettabile di persone continua a disconoscere il proprio status sierologico. Impotenza nel realizzare che esista un elevato numero di barriere sociali, culturali e legali ancora da superare. Sento di voler condividere l’ultimo viaggio introspettivo, un incontro ad essere precisi, carico di Speranza.

Cammino per le strade di Bangladesh, circondato da bimbi di tutte le età, che, un pò per gioco, un pò no, si contendono la mia mano, per camminare al mio fianco. Uno di loro, però, piccolo, esile, due occhi giganteschi e luccicanti, non si avvicina. Il tenero Hope è una goccia nel mare di bambini che ogni anno inonda il nostro cuore. Ci guarda giocare con gli altri bimbi dalla cima di un albero. In disparte, scruta il mondo sotto i suoi piedi, aspettando di scegliere come e quando gettarsi in quel grande girotondo di anime.

Non sapevamo che fosse figlio di genitori sieropositivi. La madre, lotta con la malattia, sotto le cure attente delle sorelle maggiori di Hope, che non la lasciano mai sola, ma un giorno, mentre siamo intenti nelle nostre attività, scopriamo che ha perso la battaglia, lasciando orfani quei figli, che in lei avevano un unico vero genitore. Il padre, se ne sta tutto il giorno steso sulla terra rossa e sconnessa dello slum, indossando un paio di jeans troppo larghi per il suo esile fisico consumato dal virus. Piangendo, confida quasi ciecamente nella bontà degli sconosciuti “muzungu”, perché sa che Hope potrebbe trovare miglior fortuna con loro.

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Non sapevamo che questo piccolino, che dimostra 3 anni, in realtà ne ha 8, e che il suo aspetto è una delle tante facce di quel male chiamato HIV. Quel male, che ha reso le sue ossa così esili, da farci avere paura che si spezzino tra le nostre mani, ogni volta che, come una piccola scimmia, ci salta in braccio. Difficile stabilire se sia stato lui a fare il primo timido passo verso la nostra sfera o se sia accaduto il contrario. Come poter ricordare a Hope l’importanza di essere felici? Non pensate troppo alla soluzione, perché tempo pochi secondi, con la sua forza inconsapevole, lui ha già risposto. Quando sceglie di saltare giù da quell’albero Hope cerca un abbraccio, una morsa stringente, delle carezze, piccoli e brevi ritagli di momenti da passare insieme. Non conosceva il dramma di sua madre, né tantomeno può realizzare la rigidità affettiva di suo padre. Non cerca delle risposte, sebbene sia lui a colmare i nostri vuoti esistenziali. Hope, come tutti gli esseri umani che crescono sul campo di guerra di questa battaglia virale, aveva bisogno di umanità. Quella umanità con la ‘U’ maiuscola, che risuona come un eco distante dai nostri sentimenti occidentali. Ricordiamoci che esiste, armiamoci di coraggio emotivo ed ideologico, serviamoci dei progressi nella ricerca e dei mezzi di propagazione. Esiste un mondo che merita di essere esplorato, dietro quelle barriere. Hope, significa Speranza.

Tuko Pamoja

GiacomoGiacomo Onlus

FOTO CREDITS: LAVINIA INCIOCCHI

2018-06-05T15:36:59+02:00