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Rumore muto

Martina Passione Scuola Secondaria di primo grado “Pieraccini” di Firenze

La prima cosa che mi colpisce è il freddo. Pungente, come non ne ho mai sentiti. Sembra penetrarmi sotto la pelle come un milione di aghi, facendomi rabbrividire persino le ossa.
Mi trovo su un pavimento sconosciuto, ripiegato su me stesso in posizione fetale. Piano piano, nella mia lenta risalita verso la presa di coscienza, realizzo di avere le mani strette sopra le orecchie, quasi a volermele proteggere. Devo essere stato in quella posizione per tantissimo tempo perché, quando provo ad alzarmi, mi accorgo di avere le membra terribilmente irrigidite. A fatica, mi metto in ginocchio. Questo piccolo sforzo basta a spossarmi, così mi ritrovo a puntellarmi su mani e ginocchia, annaspando per ritrovare il respiro. Quando l’aria ricomincia ad entrarmi regolarmente nei polmoni, e il mio cuore tornaa un battito normale, mi siedo sul pavimento gelido, cercando di riordinare le idee.
La consapevolezza è un forte, terribile colpo allo stomaco. Non ricordo niente. Nulla che mi serva a capire dove mi trovo o come mai sono qui. Non ho idea della mia età del mio aspetto, l’unica cosa che ricordo è il mio nome: Luke.
Mi schiarisco la gola, e provo a parlare. Da prima riesco a tirare fuori solo un orribile gorgoglio rauco poi, piano piano, la voce ricomincia a sgorgare chiara fuori dalle mie corde vocali.
– Luke…- dico piano. Pronuncio il mio nome mille volte, sperando in una qualche illuminazione che mi aiuti a ritrovare la memoria, ma niente. Nessun ricordo si manifesta, solo il vuoto più oscuro e profondo.
Intanto ho sempre più freddo. Tremo, con la schiena appoggiata contro la parete alle mie spalle. Osservo la stanza in cui mi trovo, ma dentro di me già so che non vi troverò porte. Quattro pareti di metallo, un pavimento di piastrelle blu e un soffitto molto basso, sul quale passano grandi tubi di ferro ricoperti di brina.
“Gran bel posto” penso “L’ideale per passarci una vacanza”.
Mi porto le mani davanti alla bocca, per provare a soffiarci sopra un po’ di fiato caldo. Allora vedo come sono ridotte. Non so perché fino a questo momento non ci avessi ancora fatto caso, forse non le avevo guardate bene. Ho mani forti, lunghe dita affusolate da pianista. Belle mani, ma non è questo a colpirmi. Sono blu dal freddo e coperte di sangue secco. Lungo le braccia ho lunghe, bluastre strisce di lividi, come le impronte delle dita di una mano, una mano straordinariamente forte. Non riesco a capire da dove venga il sangue, finché non mi ricordo che quando mi sono svegliato erano strette sopra le mie orecchie. Lentamente, mi tasto la testa. Dalla tempia fino all’orecchio sinistro c’è una grossa chiazza di sangue coagulato, come se qualcuno mi avesse colpito in testa con una mazza. Forse è per questo che non ricordo niente. È solo un flash, non si potrebbe nemmeno chiamarlo “ricordo”. Per un attimo una luce mi abbaglia la testa, e qualcosa bussa alle porte della mia memoria. Ricordo rapide immagini, scoppi brevi nella mia mente. Degli uomini con il volto coperto, che calano su di me con una siringa, la risata spietata di una donna, un ragazzo pallido che grida il mio nome, avvolto nelle tenebre.
Torno alla realtà con uno scossone, alla stessa velocità che ci mette un sasso a cadere. Tengo gli occhi chiusi per qualche secondo, cercando di trattenere i ricordi, ma è come tentare di catturare l’acqua con le mani. Più cerco i dettagli, più mi sfuggono. Il ragazzo pallido che mi chiamava… sento che è importante, ma non ho idea di chi sia. Con uno sforzo mi costringo a riaprire gli occhi.
Voglio capire di più. D’improvviso mi è chiaro che chiunque mi abbia chiuso in quella stanza non ha buone intenzioni nei miei confronti. Devo andarmene, e anche in fretta. Mi alzo in piedi con fatica, e comincio a perlustrare la parete di fronte palmo a palmo. Le mie mani gelano, a contatto con il freddo metallo. Continuo a tastare tutte le pareti, finché non arrivo all’ultima, quella alla quale son rimasto appoggiato fino a poco fa. Sto per passare oltre, quando mi accorgo di due occhi che mi fissano, da dentro la parete. Il mio cuore perde almeno una decina di battiti e io chiudo gli occhi per lo spavento, scuotendo la testa per cercare di recuperare la lucidità. Dalla parete mi fissa il volto pallido di un ragazzo. Ha gli occhi chiari e spiritati, un naso che deve essersi rotto diverse volte e i capelli biondi impiastricciati e sporchi di sangue. Ha l’espressione esausta ma attenta di un animale braccato dai cacciatori. Un viso troppo familiare perché possa essere una coincidenza. Lentamente, con molta cautela, strizzo l’occhio. Il ragazzo fa lo stesso. Tiro un sospiro di sollievo. È solo il mio riflesso, e la parete è fatta di vetro. Appoggio la testa contro la superficie liscia e fredda, cercando di riprendermi, e il mio riflesso mi imita. Mentre ritorno a un respiro normale, scruto al di là dal vetro. È molto buio, ma riconosco una stanza simile a quella in cui mi trovo io. Anche in quella, non sembrano esserci porte. Chiudo gli occhi, sconsolato. Non vedo modo di uscire da una situazione assurda come questa. Una lacrima mi riga il viso, facendomi frizzare gli occhi. Sto per lasciarmi scivolare di nuovo a terra, quando sento dei passi. Un cervo, che sente lo scatto del fucile alle sue spalle, deve provare la stessa cosa che provo io in questo momento. Il più puro terrore si impossessa di me.
“Sono arrivati.” penso “Quelli che mi hanno messo qui sono tornati a prendermi”. La risata della donna mi riecheggia nelle orecchie. Apro gli occhi, deciso ad affrontare i miei aguzzini con coraggio, ma quel che trovo non è neanche lontanamente ciò mi aspettavo. Davanti a me, oltre il vetro, c’è il ragazzo che gridava il mio nome in quel ricordo. Se ne sta in piedi nella stanza buia, a guardarmi. Indossa una maglietta bianca e slabbrata, ed è di un pallore mortale. Due occhi grigi come l’ardesia splendono sotto un ciuffo di capelli neri.
È come se fino ad ora fossi stato sott’acqua, e all’improvviso avessi visto una luce, dall’alto. Come un naufrago che si vede gettare una corda. Di qualunque corda si tratti, la afferra.
Inizio a battere sul vetro con un dito, poi indico me stesso. Il ragazzo non dà segno di aver capito. Se ne sta semplicemente lì, le braccia lungo i fianchi, a fissarmi. I suoi occhi sono grigi come una giornata d’inverno; una dura, impenetrabile coltre di nubi. Un vago senso di panico mi si insinua nel petto. Io ho già visto quegli occhi. Conosco quegli occhi.
D’improvviso inizia a girarmi la testa, mentre scariche di panico nervoso mi attraversano tutto il corpo. Busso più forte sul vetro, ma il ragazzo si limita a guardarmi. Avvolto nelle tenebre della stanza vuota, mi guarda con una tristezza negli occhi talmente profonda, che per un attimo credo di svenire. Sottili lingue di gelo iniziarono ad avvolgermi, quasi sussurrandomi qualcosa. Quello che prima era solo panico va lentamente trasformandosi in terrore.
Inizio a gridare al ragazzo di tirarmi fuori di lì, ovviamente senza risultato. Batto le mani contro il vetro, tanto da farlo vibrare, ma quello non si rompe. Urlo, grido, finché la mia voce assomiglia sempre di più al gracchiare di un corvo. Le mie mani sembrano dotate di vita propria, mentre colpiscono il vetro. Schizzi di sangue mi macchiano le dita, ma io non ci faccio più nemmeno caso. Sono un leone in gabbia e voglio solo uscire, uscire di qui e scappare da questo posto assurdo.
– Lo so che mi senti! – urlo al ragazzo. – Aiutami! Tirami fuori di qui! –
Lui non si muove.
– Ti prego… – ora sto sussurrando.
Mi sembra che la sottile luce che avevo intravisto si stia affievolendo sempre più in fretta, ma non voglio che scompaia. Il terrore di trovarmi di nuovo al buio mi invade. Non voglio tornare nell’oscurità opprimente dell’amnesia, non voglio. Urlo e batto sul vetro, come una mosca impazzita di paura sbatte contro una finestra. Quel ragazzo deve avere delle risposte, deve averle. Sono sicuro che mi conosce, anche se non ho idea di come faccio a dirlo. Lui di certo ha il potere di tirarmi fuori di qui, sono convinto che gli basterebbe allungare una mano. Eppure non fa niente. Sta ritto in piedi e mi guarda, con un’espressione di sconfitta sul viso. Sì, sconfitta.
Capisco tutto non appena riesco a dare un nome a quello che prova. Non mi aiuterà. Per quanto sanguinino le mie mani, per quanto si arrochisca la mia voce, lui non alzerà un dito per aiutarmi. Mi allontano dal vetro, terrificato. Mentre cammino all’indietro cado, e sbatto sul pavimento gelido. Alzo lo sguardo sul ragazzo, pronto ad urlargli contro.
Una lacrima, una sola lacrima, gli solca il viso. Lui non fa neanche il gesto di asciugarla, ma la lascia scorrere sul suo viso fino al bordo del mento. La goccia cade sul pavimento, con un suono ovattato, ma nella mia mente fa più rumore di una cascata. Ed è una cascata ad irrompere nella mia testa. Come la forza dell’acqua che rompe una diga, la lacrima spazza via tutta la nebbia che mi avvolgeva. Ricordo tutto. Scoppi, come piccoli spari, riecheggiano nel mio cervello, via via che mi tornano in mente i ricordi. Una casa distrutta, il viso sorridente di due bambine, che riconosco essere le mie sorelle, il mio migliore amico. La lama di una spada che si abbatte su di me, un bacio, un bambino dagli occhi grigi che mi guarda tra le foglie di un albero. Apro gli occhi, e quello stesso bambino ora è davanti a me, dietro un vetro, che mi guarda con una tristezza infinita nello sguardo.
Mi accorgo di essere seduto, le mani serrate sulle orecchie, come a voler impedire il flusso dei ricordi. Lentamente mi alzo e mi avvicino al vetro. Appoggio una mano sulla superficie liscia e butto fuori l’aria. Il ragazzo mi guarda, e poi si avvicina anche lui. Posa una mano esattamente dove io ho la mia, la pelle diafana che risplende alla luce azzurrina del vetro.
Mi guarda, e finalmente capisco. Nonostante io sia ferito, nonostante sia terrorizzato, non è me che stanno torturando.
È lui.
È lui che deve guardarmi impazzire dietro questo vetro, non potendo fare niente per aiutarmi. È lui a subire il trattamento peggiore
Sono pietrificato dalla paura di ciò che sta per succedere, e quasi non sento arrivare il colpo alla nuca, che mi fa cadere a terra. Fatico a mantenere la mente lucida, mentre lampi di luce esplodono come stelle davanti ai miei occhi. Intorno a me c’è confusione, quando mi giro vedo il ragazzo che picchia contro il vetro gridando il mio nome. Una risata fredda e crudele di una donna rimbomba nelle mie orecchie, mentre qualcuno mi gira sulla schiena, e un uomo con il volto coperto mi pianta un ago nel collo. Sento il liquido freddo che si diffonde nel mio corpo, e so già che quando mi sveglierò non ricorderò nulla. Cerco un ultimo ricordo a cui aggrapparmi, la mente che si contorce sotto gli effetti del sedativo, ma tutto sembra scivolarmi addosso come se fosse acqua. L’unica cosa che riesco a tenermi stretta è un paio di occhi grigi, quelli non voglio perderli. Poi, un sipario cala davanti ai miei occhi.
L’ultima cosa che mi colpisce è la sensazione di cadere.

Martina Passione
Classe 3F – Scuola Secondaria di primo grado “Pieraccini” di Firenze

2016-07-14T11:35:52+02:00