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Intervista a un deportato

Emma Boschi Scuola Secondaria di 1° grado “Puccini” di Firenze

Oggi, in una mattina come tante,in una scuola italiana come le altre, la nostra classe sta per assistere ad un colloquio con un ex deportato ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento. Siamo pronti per porgli alcune domande al riguardo. Le abbiamo stabilite prima e sarà la nostra professoressa a fargliele.
– Che importanza ha, oggi, ricordare la Shoah? –
– Dal mio punto di vista, ricordare è la ragione stessa alla base della storia: l’uomo ha il dovere di ricordare i suoi errori per cercare di non commetterli più. La Shoah, che in ebreo significa appunto “catastrofe”, è il punto più basso che l’umanità ha toccato nel corso della storia. La penso così, non solo perché sono stato deportato in quanto ebreo, ma anche perché questo sterminio ha avuto come vittime tutti i soggetti della società ritenuti inutili, un peso, da Hitler e dai suoi seguaci: omosessuali, malati di mente, oppositori politici, ex carcerati, clandestini, Testimoni di Geova, disabili e Rom. –
– In quale campo di concentramento era stato rinchiuso? –
– Purtroppo sono finito nel luogo ritenuto un vero inferno sulla Terra: Auschwitz. Ricordo che fummo caricati su un vagone merci che ci portò direttamente al campo di concentramento. Durante il viaggio, molti miei compagni morirono a causa della mancanza di cibo e di aria, come pure di vestiti adatti a sopportare quelle gelide temperature invernali. I più deboli, i bambini e gli anziani furono decimati nel corso del viaggio. –
– Cosa ricorda del suo arrivo ad Auschwitz? –
– Quando siamo arrivati ad Auschwitz, non ci rendevamo conto di ciò che sarebbe successo. Siamo stati divisi: uomini da una parte e donne dall’altra. Poi è avvenuta la selezione: chi appariva debole, veniva classificato dalle guardie tedesche come “da uccidere”; chi, invece, sembrava forte ed energico, era destinato ai lavori forzati e, dopo aver lavorato come uno schiavo, sarebbe stato ucciso comunque. Successivamente ci hanno tolto tutto: gioielli, vestiti, ogni effetto personale; ci hanno rasato (anche le donne) e tatuato un numero sul braccio. Il numero serviva per sopravvivere, per ottenere cibo, vestiti, era diventato il nostro nuovo nome. Quel numero indelebile marchiato sulla nostra pelle per sempre significava perdità di dignità, perché è il nostro nome quello che usiamo per presentarci, ed essere ridotti ad un numero ci ha trasformato in qualcosa di simile alle bestie, e forse è così che ci ritenevano le guardie naziste. –
– Cosa ha pensato quando è stato trattato in questo modo? –
– Noi prigionieri eravamo disposti a credere a qualunque cosa prima di accettare una realtà impossibile anche solo da immaginare. Ma in realtà tutti eravamo consapevoli che quei campi avevano l’unico e solo scopo di annientare milioni di persone attraverso le camere a gas. –
– Che cosa ricorda in particolare? –
– In assoluto ricordo la fame. Dal momento in cui la deportazione ci aveva privato della nostra dignità, l’unico pensiero dominante nelle nostre menti era il bisogno di sfamarci. Per un pezzo di pane o per un cucchiaio di minestra, eravamo disposti a tutto: la solidarietà e l’amicizia scomparivano. Un’altra cosa inesistente era la cura del corpo: non avevamo neanche sapone per lavarci, dormivamo ammassati nelle baracche, sembravamo più bestie che uomini. I nazisti ci avevano tolto tutto: dignità, capacità di amare, rispetto di noi stessi. –
– Ma eravate in pericolo ogni giorno? –
– Certamente, la morte era un fatto all’ordine del giorno. Si rischiava di morire anche per qualcosa da nulla, come per esempio urtare casualmente una guardia tedesca. La vita nel campo era precaria: non mangiavamo, non avevamo vestiti adatti per sopportare le temperature di quel luogo freddissimo e, inoltre, eravamo costretti a lavorare a ritmi disumani. Solo quelli più forti, capaci di adattarsi o fortunati, riuscivano a sopravvivere. –
– In che senso più fortunati? –
– Chi aveva capacità particolari diventava più prezioso per i tedeschi, e quindi meno sacrificabile. Io, per esempio, avevo studiato chimica e sapevo il tedesco: probabilmente mi sono salvato per questi motivi. –
– C’era qualcosa che l’ha aiutata a sopportare questa tremenda esperienza? –
– Sì, l’unica cosa che riusciva a sollevarmi un po’ il morale era la letteratura. Ogni sera mi ripetevo nella mente i versi del mio poeta preferito, Dante. In particolar modo ricordavo il ventiseiesimo canto dell’Inferno, il Folle volo di Ulisse. Cercavo di ripetermeli per sentirne la profonda bellezza, nonostante fossi io ad essere finito in una sorta di girone infernale. La memoria in questi casi non serve a ricordare le tragedie, ma anche la bellezza. –
– Io la ringrazio a nome mio e della nostra classe per aver trovato il coraggio di esporci la sua dolorosa, ma indelebile esperienza. Associare un concetto a qualcosa di reale non è una cosa che facciamo spesso ma, dopo averla ascoltata, possiamo finalmente associare la parola coraggio a un volto, a una persona. Se ha deciso di non scordare o mettere da parte questi orrori è perché crede nell’importanza di ricordare. Ascoltare il dramma della Shoah da una persona che lo ha vissuto sulla propria pelle è il modo migliore per serbarne la memoria. Bene, è stata davvero un’esperienza più che significativa, che non può essere sostituita da una lezione “tradizionale” di storia. Ha mai pensato di scrivere un libro sulla sua esperienza? –
– Ci ho pensato, a volte, anche se quei ricordi sono lontani, gli incubi di quei tempi continuano ancora a tormentarmi. Chissà, forse un giorno troverò il coraggio di mettere per iscritto tutto questo dolore così che qualcuno possa ricordarsene. –
– D’accordo, è arrivato il momento di salutarci. Ma, mi scusi, mi sono dimenticata di chiederle un’ultima cosa. Qual è il suo nome? –
– 174517… No, scusi, il ricordo di come rispondevo alle guardie tedesche ancora mi opprime. Comunque il mio nome è Levi, Primo Levi. –

Emma Boschi
Classe 3B – Scuola Secondaria di 1° grado “Puccini” di Firenze

2016-07-26T10:59:08+02:00