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Quando mangiare è terapia. L’inchiesta sulla cura dei disturbi alimentari

ROMA – Si chiama ‘codice lilla’ il nuovo percorso di cura e accoglienza al pronto soccorso per i pazienti affetti da un Disturbo del Comportamento Alimentare (Dca). È il frutto di un tavolo di lavoro coordinato dal ministero della Salute, che ha elaborato un iter specifico per aiutare gli operatori sanitari ad affrontare dei disturbi […]

disturbi alimentari

ROMA – Si chiama ‘codice lilla’ il nuovo percorso di cura e accoglienza al pronto soccorso per i pazienti affetti da un Disturbo del Comportamento Alimentare (Dca).

È il frutto di un tavolo di lavoro coordinato dal ministero della Salute, che ha elaborato un iter specifico per aiutare gli operatori sanitari ad affrontare dei disturbi che molto spesso non vengono riconosciuti.

Una guida importante per gli addetti ai lavori, dal momento che chi soffre di queste patologie può presentare sintomi fisici diversi e molto spesso non riceve una diagnosi e un trattamento adeguato. Il pronto soccorso può quindi costituire per i pazienti una via di accesso, per quanto impropria e forzata, al percorso terapeutico corretto.

Le raccomandazioni per il triage e il trattamento del paziente affetto da un Dca sono state fortemente richieste dalle associazioni dei familiari e dei genitori, ma anche dagli operatori sanitari: uno dei principali problemi legati alla cura dei Dca, infatti, è la necessità di avere a disposizione degli “strumenti pratici per un argomento in cui ancora oggi, purtroppo- si legge nel comunicato del ministero- esiste una estrema disomogeneità di cura e trattamento”.

I disturbi del comportamento alimentare

Sottovalutati, ignorati, confusi con banali ‘capricci’ e avvolti ancora da pregiudizi, i disturbi alimentari sono delle vere e proprie patologie psichiatriche. Anoressia nervosa, Bulimia nervosa, Binge eating e Obesità sono i più conosciuti, a cui si aggiungono nuovi disturbi come Ortoressia (l’attenzione ossessiva alle regole alimentari) e Vigoressia (l’ossessione per la propria massa muscolare). Sono infatti “patologie mutanti, che cambiano e si adeguano allo spirito dei tempi” spiega la dottoressa Laura Dalla Ragione, psichiatra e psicoterapeuta che ha preso parte alla stesura della guida per il nuovo ‘codice lilla’. Tanto che non si tratta più di patologie di genere, che si limitano a colpire le donne. Da quanto si apprende dal sito del ministero della Salute, sono più di tre milioni gli italiani affetti da Dca, un fenomeno che, sostiene la dottoressa Dalla Ragione, “negli ultimi anni si sta diffondendo come fosse un’epidemia”.

Una vera e propria epidemia quella dei Dca che il Sistema Sanitario non è in grado di affrontare.

Le normative specifiche in materia di assistenza e cura di queste patologie sono di competenza delle singole regioni, sui binari tracciati dalle linee guida nazionali del ministero della Salute, ma questo comporta una netta differenza tra regioni, tanto che alcune rimangono indietro rispetto alle altre.

È con i due Quaderni della Salute, il n. 17/22 del 2013 e il n. 29 del 2017, che il ministero ha stabilito i principi generali alla base del percorso terapeutico a cui ogni regione deve adeguarsi. L’approccio interdisciplinare e la molteplicità dei contesti di cura sono i cardini su cui si reggono i cinque livelli di assistenza indicati dal ministero: medico di base, terapia ambulatoriale, day hospital, ricovero ospedaliero e riabilitazione residenziale.

Il dedalo terapeutico

Se sulla carta il percorso terapeutico appare chiaro, nella realtà non è così. Non solo molto spesso è difficile diagnosticare un disturbo alimentare – motivo per cui il ‘codice lilla’ al pronto soccorso costituisce un grosso passo avanti – ma spesso risulta complicato anche individuare il livello di gravità e il percorso di cura corretti e adatti al singolo caso.

Molte regioni poi non sono attrezzate per garantire la cura adeguata a tutti e cinque i livelli identificati e si innesca così un meccanismo in base a cui le famiglie sono costrette a spostarsi da una regione all’altra per ricevere l’assistenza necessaria. Sempre che il trasferimento del paziente venga autorizzato dalla Asl di riferimento, perché altrimenti – se la situazione economica lo consente – le famiglie sono costrette a rivolgersi a strutture private.

 

Inchiesta di: Chiara Caraboni, Eleonora Savona, Claudia Valenti.

2018-09-15T16:07:54+02:00