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‘Freedom Fields’, il documentario sul calcio femminile in Libia

L'intervista alla regista Naziha Arebi

NAPOLI – “È molto importante che i giovani vedano che la gente può farcela, può sfidare lo status quo. Qualsiasi cosa facciano in campo le donne della nazionale, penso che l’importante, adesso, sia che esistano”. Folti capelli ricci, 35 anni e un sorriso contagioso, Naziha Arebi dice la sua sul calcio femminile in Libia, che ha raccontato con il pluripremiato documentario ‘Freedom Fields’.

Intervistata dall’agenzia Dire nell’ambito del festival internazionale di giornalismo civile ‘Imbavagliati’, in corso a Napoli, Arebi racconta la storia del lungometraggio, che oggi sarà proiettato in anteprima al Napoli Film Festival. Con la sua telecamera “piccola, per non dare nell’occhio”, la regista anglo-libica ha seguito le sportive nel corso di cinque anni, dalle proteste contro Muammar Gheddafi del 2011 fino alle difficoltà legate al conflitto civile.

“La parte più dura di tutto il lavoro? Decidere quando chiuderlo” racconta: “Ho avuto l’idea, per la prima volta, nel 2011, e ho iniziato a filmare nel 2012. C’è voluto un bel po’ di tempo per trovare queste donne: c’era questa squadra misteriosa che nessuno aveva ancora mai sentito ne’ visto giocare, era molto segreta. Quando le ho finalmente incontrate, ho scoperto persone geniali: avevano tantissima energia, si divertivano un sacco. Ma stavano combattendo, e avevano lottato dieci anni per essere la nazionale”.

Inizialmente, Arebi aveva programmato di concludere le riprese entro il 2013: “Pensavo che avrebbero giocato la loro prima partita e che quella sarebbe stata la fine del film. E invece, ovviamente, la Libia inizio’ ad andare in frantumi, arrivò la guerra civile, alle donne fu impedito di viaggiare e di giocare. Tanti mi dissero di smetterla con il film” racconta. “Ma c’era ancora tanto da scoprire, aldilà del calcio: le loro vite private, che cosa significa vivere in Libia ogni giorno. Così ho deciso di continuare a riprendere ed e’ diventato un film molto diverso”.

Ci sono voluti in totale sette anni di lavoro e oggi il documentario, premiato al Festival internazionale di Toronto, sta girando tra le sale e le arene di tutto il mondo. In Libia, però, resta molto difficile organizzare la diffusione: “Ho cercato di usare le presentazioni come uno strumento per consentire (alle protagoniste) di viaggiare e poter fare esperienze in vari Paesi” racconta Arebi. “Ma in Libia non abbiamo cinema, fare proiezioni è impossibile. Abbiamo provato a organizzarne alcune privatamente con gruppi di comunità, come gli scout e le organizzazioni della società civile. È importante che i libici vedano il film, ma bisogna farlo in sicurezza… c’è pur sempre una guerra a Tripoli”.

Adesso la maggior parte delle ragazze hanno lasciato la nazionale, ma la loro partita non è finita, racconta la regista: “Siamo sempre in contatto, alcune di loro hanno messo in piedi una ong, iniziando a usare lo sport come strumento per lo sviluppo sociale e la riconciliazione, per i giovani e le ragazze in Libia. Il film ha consentito loro di ottenere attenzione su questo lavoro e DI raccogliere fondi per finanziarlo”. 

2019-09-24T10:22:06+02:00