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Pensiero divergente, Lumsa: “98% bambini lo ha, cala crescendo”

Professoressa Cinque: "In didattica predomina quello convergente, docenti non temano talento"

ROMA – Trovare soluzioni diverse ai problemi, questo è il pensiero divergente. Non corrisponde alla creatività, ne è un suo presupposto e consiste nella capacità di trovare molteplici idee e risposte ad una stessa domanda o tante risposte diverse rispetto a un medesimo problema. “I primi test per valutarlo sono stati condotti nella scuola dell’Infanzia, dimostrando che il 98% dei bambini raggiungono pensieri molto alti, immaginano ad esempio 150 usi diversificati di uno stesso elemento, ma man mano che crescono perdono questa capacità. Perché? A scuola predomina il pensiero convergente”. A dirlo è Maria Cinque, professoressa associata di Didattica e Psicologia Speciale dell’Università Lumsa, al convegno ‘Pensare fuori dalla scatola’ promosso dall’Ic Regina Elena oggi a Roma.

“A scuola c’è un solo libro di testo con una soluzione finale: il pensiero logico che prevede un’unica soluzione possibile. Per anni il metodo deduttivo è stato quello principalmente coltivato, così un alunno che va fuori dal seminato può dare fastidio- sottolinea Cinque- il docente deve, invece, trovare tempo e spazio per aiutare a coltivare il suo talento ed avere un tempo e uno spazio per favorire poi la sua convergenza, supportandolo nel trovare tra le mille idee quella che possa essere implementata”.

Esiste una complessa interazione di fattori che contribuiscono all’emergere della creatività. “Una ricerca sulla classe creativa della Silicon Valley punta su tre fattori: talento, tolleranza e tecnologia. Ma bisogna anche considerare i tratti di personalità, le condizioni ambientali e le aree di performance”. Non si è talentuosi in tutto. “Talento è un termine che in origine indicava la bilancia con cui Zeus pesava le anime, poi ha coinciso con l’oggetto pesato e infine con una moneta. Talento- ripete Cinque- nel V secolo significava sopportare un carico gravoso”.

Le contrapposizioni tra genetica e ambiente e tra impegno e talento naturale “sono spesso esagerate. Talento vuol dire allora impegno unitamente alla capacità di affrontare i propri limiti e paure, nonché i fallimenti”, chiarisce l’esperta. La resilienza è, allora, una parola che va a braccetto con il talento, ma è “fondamentale che ci siano intorno ai bambini ad alto potenziale delle persone che li aiutino a deducere i propri talenti”.

Cosa succede se i talenti sono all’interno di una classe? “Spesso questi bambini potrebbero dare fastidio, disturbare l’aula con il loro pensiero divergente. Nella migliore delle ipotesi si annoiano, sono scambiati con bambini provocatori e iperattivi. Abbiamo fatto una indagine su un campione di insegnanti- racconta la docente universitaria- per capire cosa sapessero dei bambini talentuosi. Ne è emersa una concezione romantica del talento, spesso i professori confondono il bambino brillante con il bambino di talento, che invece può tenerlo sommerso (soprattutto se bambine), mostrandosi provocatorio o celandosi dietro un disturbo di apprendimento”.

I duble gifted hanno, infatti, una plusdotazione cognitiva, ma anche un disturbo di apprendimento causato dal loro modo diverso di ragionare di intendere. “I docenti devono fornire quindi delle opportunità per lo sviluppo del pensiero divergente- continua Cinque- fornendo collegamenti tra le discipline, portando alla classe proposte stimolanti che partano anche dalle intuizioni dei bambini, devono essere loro stessi creativi. Di fronte al gifted il docente può trovarsi spiazzato, ma reagisca con umiltà e non con chiusura”.

Con l’Istituto di Ortofonologia (IdO) “abbiamo creato un corso di formazione su una piattaforma nazionale aperta e poi un master – parte a breve la seconda edizione – per offrire agli insegnanti strumenti e metodi utili per apprendere cosa sia il talento- conclude- come e dove si esprime”.

2019-10-29T13:18:05+01:00