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Hate speech, quando l’influencer è l’odio

ROMA – I social network rappresentano uno degli strumenti più potenti che abbiamo a disposizione. Grazie ad essi, infatti, possiamo interagire con amici e parenti, ‘seguire’ i nostri idoli ed esprimere liberamente il nostro pensiero. Ma come tutti gli strumenti, possono essere anche utilizzati per fare del male, come nel caso dell’Hate speech, incitamento all’odio […]

ROMA – I social network rappresentano uno degli strumenti più potenti che abbiamo a disposizione. Grazie ad essi, infatti, possiamo interagire con amici e parenti, ‘seguire’ i nostri idoli ed esprimere liberamente il nostro pensiero. Ma come tutti gli strumenti, possono essere anche utilizzati per fare del male, come nel caso dell’Hate speech, incitamento all’odio o “discorso dell’odio” scagliato contro minoranze o soggetti vulnerabili. Un fenomeno che, nonostante le misure prese finora, è lontano dall’essere sconfitto.

Che cos’è

Si tratta di contenuti che hanno come scopo quello di insultare una minoranza ed incitare anche altre persone all’odio tramite slogan, commenti sgradevoli o meme. Nei casi più gravi, può arrivare a fomentare la violenza nei confronti di quel determinato gruppo sociale. Tuttavia, la storia dell’Hate speech non è iniziata con internet. Erano discorsi di odio anche quelli di Hitler rivolti agli ebrei o quelli dei suprematisti bianchi rivolti agli afroamericani negli Stati Uniti. Il linguaggio di incitamento all’odio nei confronti di un gruppo o di una minoranza, quindi, è sempre esistito e ha avuto conseguenze devastanti nella storia. Ogni volta che una minoranza è additata come il male e ‘odiata’, scatta un meccanismo di difesa da parte del gruppo dominante che, come ha sottolineato lo psicologo Gordon Allport, partendo dal linguaggio dell’odio può sfociare in violenza, fino allo sterminio.

Hate speech oggi

Con l’avvento dei social, però, il fenomeno dell’Hate speech si è diffuso ancora di più. Secondo uno studio compiuto da Vox con l’Università di Roma ‘La Sapienza’, colpisce soprattutto donne (63% dei tweet analizzati), migranti (10%), diversamente abili ed ebrei. C’è un tratto comune di questi gruppi di persone: sono insultati per quello che sono e non per quello che fanno. Dire ‘troia’ a una donna è insultarla in quanto tale, in quanto donna, non per quello che ha fatto o per un suo pensiero. Con tutto quel che ne consegue nella sfera emotiva.
Ecco perché giuristi, governi e aziende social hanno tentato negli anni di trovare un modo per ridurre l’Hate speech in tutte le sue declinazioni, cercando nuove forme di prevenzione e di repressione del fenomeno. Un’impresa non facile, perché l’Hate Speech deve bilanciarsi con un diritto fondamentale, quello alla libera manifestazione del pensiero.

Come si sta fermando la cascata d’odio

Il linguaggio dell’odio è un problema che riguarda tutto il mondo e che è stato approcciato in modi diversi. Negli Stati Uniti il diritto all’informazione è garantito dal primo emendamento della Costituzione. La Corte Suprema Usa ha stabilito che non c’è alcuna eccezione alla libertà d’espressione a meno che l’insulto non sia diretto, personale, che rappresenti una minaccia vera o istigatore alla violenza. Quindi l’eventuale limitazione o cancellazione dello Hate Speech viene lasciato ai gestori privati dei social network.

Molto diversa la situazione in Europa: nel 2016 l’Unione Europea ha emanato un codice di condotta contro il linguaggio d’odio affinché possa essere prevenuto e represso il più efficacemente possibile. I gestori dei social network sono tenuti a cancellare i post, i commenti e le storie che incitano all’odio e la Corte di giustizia dell’Unione, il 3 ottobre scorso, ha stabilito che i governi posso far cancellare contenuti d’odio, che non devono essere visibili non solo nello Stato di appartenenza del soggetto ma anche in tutto il mondo. Una sentenza storica che consente dunque una limitazione pesante della libertà di espressione anche in paesi diversi da quello della vittima.

In Italia poi sono previste pene fino ad un anno e sei mesi di reclusione, o una multa fino a 6000 euro per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ed etnico o istiga o commette atti di discriminazione, fermo restando il risarcimento del danno della vittima. Famoso è il caso della ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha denunciato tutti coloro che la offendevano sui social, ricevendone poi anche le scuse. Due approcci molto diversi che, anche se stanno producendo qualche risultato, sono ancora lontani dal risolvere la questione.

Ultimo caso eclatante è quello di una ragazza di Conversano, in provincia di Bari, che si è trovata in aereo con il leader della Lega, Matteo Salvini, e ha scattato un selfie mostrando il dito medio mentre lui dormiva. L’ex ministro ha condiviso pubblicamente la foto, e la ragazza si è ritrovata a subire insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico. Ecco perché, visto che le leggi di repressione in questo caso non bastano, istituzioni e associazioni organizzano molte campagne contro l’Hate Speech, cercando di sconfiggerlo dal lato culturale e non solo di repressione penale come il “No Hate speech movement”, che fa campagna in tutti i paesi membri Ue o il “manifesto della comunicazione non ostile”, una carta che elenca i dieci principi di stile utili a migliorare lo stile e il comportamento di chi sta in rete.

2020-02-10T10:40:22+01:00