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La democrazia

Il progetto dell’IIS ‘Luigi Savoia’ – Chieti per il contest ‘Percorsi di legalità’

Il progetto dell’IIS ‘Luigi Savoia’ – Chieti per il contest ‘Percorsi di legalità’.

Di Mattia A. Fusella, V C LSA


DESCRIZIONE: testo narrativo ispirato alla Costituzione italiana.


Sono uscito, finalmente. E’ cosi bella, la brezza sul viso. L’ aria è tesa, si preannuncia un temporale. Da quando ero dentro? 13 anni per lo meno. Sì, era all’ incirca dal 1929. Ero un professore, un uomo che ha compiuto un solo sbaglio. Criticare il Governo, in aula magna, davanti a classi intere. Criticare quella diavoleria che era guerra,ciò che il fascismo proclamava come la cosa più santa al mondo. L’ho fatto con una sola frase: <>
Ma era reato, opporsi a ciò a cui ci stavano avviando in quegli anni. La liberta di pensiero non era cosa per noi uomini comuni. Era concessa solo a coloro che comandavano. Il giorno dopo venni convocato in caserma per una multa non pagata. Invece del commissariato, trovai un pretore, il dottor***, alto gerarca della sede di zona del partito, con al seguito una scorta di “camicie nere”. Lì venni percorso, insultato, deriso. Mi privarono della tessera del partito e mi arrestarono, con una pena stabilita senza processo: 30 anni di carcere. Tanto poteva allora la “giustizia”. Ora voi ditemi, dov’ è la libertà? Dove sono i diritti? Quello che mi hanno fatto è stato come sputare sullo statuto, un insulto ai più banali benefici che Carlo Alberto ci concesse quando ancora l’Italia era divisa. Sono sempre stato un fautore della monarchia. L’ho sempre appoggiata in tutto. Ma dopo la carneficina della Grande Guerra, dopo che mio figlio è morto in trincea, non posso fare a meno di provare una nota di disgusto ogni volta che si parla di guerra, ogni volta che la si esalta come se si trattasse di un’avventura, di un gioco. Venni rinchiuso a ***, un carcere di custodia preventiva del basso Lazio. Condividevo la mia cella con il Bianchi,un muratore romano in carcere perché militante di estrema sinistra del Partito Comunista,un uomo con raffinatissime capacità oratorie. Sono stati anni difficili. Tutto era stato studiato per farti rinnegare i tuoi ideali, per uniformarti alla massa, per essere “giusto”. Non potete immaginare quanto sia duro vivere lì dentro. Ogni minimo “sgarro” al regolamento era duramente punito. Mangiare, pregare, lavorare. Questi erano i tuoi obblighi. Ho visto uomini picchiati, a volte trasferiti in campi di concentramento, perché si rifiutavano di partecipare alle liturgie domenicane. Mussulmani, ortodossi, protestanti, ma anche zingari, omosessuali … il diverso non era ben voluto … non vi era uguaglianza. Non ci era concesso tenere diari. Le uniche volte che potevi scrivere erano due volte a settimana, e solo ai familiari stretti. Lettere che poi passavano per una “Commissione Interna”, che le ricontrollava, modificava e a volte censurava. Niente liberta di pensiero, ne tantomeno di parola. I giornali arrivavano raramente, e sfoltiti di molti articoli giudicati “compromettenti” per il carcerato. Niente libertà di stampa, ne di informazione. Ma nonostante questo, il Bianchi riuscì ad “aprirmi gli occhi” ed a inculcarmi le sue idee. La monarchia oramai era morta, e doveva essere il proletariato a riprendersi il potere con la forza. Non lo fece solo con me, ma con tutti i carcerati (o quasi tutti). Il popolo doveva smetterla di combattersi a vicenda, doveva rivolgere la sua ira contro il re, ma prima di tutto contro i fasci. E fu così che, un giorno, passammo all’ azione. Mentre eravamo fuori per i lavori forzati, il Bianchi e i più reattivi riuscirono ad eliminare le guardie di scorta. Liberati tutti, marciammo non verso la prigione, ma bensì verso il sobborgo dove risiedevano le famiglie dei nostri aguzzini. E lì si compì uno degli spettacoli più orribili della mia vita. I prigionieri trucidarono, per vendetta, tutte le donne e i bambini del campo. O meglio quasi tutte. Resomi conto di ciò che stava accadendo, riuscì a portare in salvo una ventina di persone e, tornato in prigione, diedi l’allarme, ma ormai il fatto era già stato compiuto. Non potrò dimenticare le grida di quegli innocenti. Mai e poi mai. Il direttore della struttura mandò quasi tutti i falangisti a disposizione, ma l’ unica cosa che poterono fare fu seppellire i morti. Venne ordinata l’esecuzione a vista di tutti i responsabili. Feci i nomi e indicai il luogo dove ci saremmo dovuti radunare, per poi sparpagliarci in tutta Italia. Non ne risparmiarono nessuno. Li uccisero tutti quanti. Io, avendo collaborato e senza saperlo salvato la moglie e la figlia del direttore, venni risparmiato e trasferito a ***, in Sicilia. Li avvenne la mia conversione alla democrazia. Tutto ciò in cui credevo non aveva più senso. I miei ideali, cui fino ad allora avevo creduto ciecamente, ora avevano il colore del sangue di innocenti. Oramai ero vuoto dentro, come una lettera cancellata. Ma una lettera cancellata può anche essere riscritta. In Sicilia era diverso. La mafia, che fino ad allora aveva governato, venne resa incapace grazie al prefetto Mori. Attenzione però, gli alti gerarchi erano a Roma, protetti dal Duce (sempre parlando di giustizia!). Dopo la morte del “Prefetto di ferro”, la mafia comunque non riuscì a riprendersi. Non subito almeno. Ecco, in quegli anni di “vuoto di potere” Già circolavano le idee democratiche. Non democrazia intesa come quella greca, ma piuttosto una democrazia occidentale, con un parlamento e una costituzione tali da poter essere definiti cosi. Una democrazia eguale, giusta, imparziale, pubblica, voluta. Una democrazia in cui ognuno potesse esprimere la propria opinione, dove vi fosse il diritto di riunirsi liberamente, dove la stampa fosse indipendente, dove i diritti fossero garantiti a tutti, dove non vi fossero discriminazioni. Restai in Sicilia per un paio d’ anni, fino allo sbarco alleato. In quel periodo venni “riscritto” dalle guardie carcerarie, tutte filo-democratiche. Ci descrissero la democrazia come un qualcosa a cui tutti i popoli dovevano aspirare, la comunità che vince i privilegiati,che si auto comanda. L’ “Indipendenza” sarebbe stata completata solo se il “demos” avesse compreso il potere che aveva tra le mani, se fosse stato capace di usarlo. Ci vuole una Costituzione, non uno statuto. Mi liberarono subito dopo lo sbarco. Da subito iniziai a militare nel CNL, assieme a molti ex prigionieri e soldati sbandati. Furono anche questi anni d’inferno, ma ciò per cui combattevamo valeva anche la vita: lottavamo per la libertà. Eravamo dislocati lungo la linea Gustav, nella zona più calda del momento. Venni ferito molte volte, ma nonostante questo continuavo a lottare. Tutti, a modo loro, mi davano coraggio; dal medico che fascia i feriti al bambino che gioca a pallone, dal contadino che nasconde il raccolto ai Tedeschi al prete che pratica le estreme unzioni. Lottavo per mia moglie, per mia madre, per mio fratello, per mio figlio. È passato un anno dall’armistizio, e ciò per cui abbiamo lottato non è stato vano: la Repubblica è fatta, la Costituzione anche. Ora posso sentirmi libero, solo oggi sono uscito veramente di prigione. Mi sento come rinato. Ora non mi resta altro da fare che rientrare a casa, salutare mia moglie, baciare la foto di mio figlio sul camino, sedermi sulla poltrona, accendermi un sigaro e gustarmi un bicchiere di amaro. Me lo merito proprio.

2017-10-30T14:14:47+01:00