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Arbeit Macht Frei

Simone Torricini Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

 

Sonnecchiava piacevolmente nel bel mezzo della notte proprio come fanno le sentinelle più esperte, ciglia socchiuse e berretto adagiato sul naso, come a fingerne un inaspettato scivolamento. Se il capo reparto fosse passato casualmente di fronte alla sua postazione non avrebbe senz’altro notato la sua pressoché inesistente attitudine al sorvegliare. D’altronde, pensava, il pericolo maggiore nel raggio di qualche chilometro non poteva che consistere nel passaggio di qualche branco di cinghiali: insomma, nessun animale di enorme taglia, normale amministrazione. Il battaglione di cui faceva parte era incaricato di scortare per un tratto di strada equivalente a poco meno di sessanta miglia l’artiglieria leggera di ritorno dalla battaglia. Di miglia ne mancavano ormai una decina, e con un altro giorno di cammino, escludendo contrattempi, sarebbero arrivati a destinazione. Eppure, nonostante rimanesse talmente poco tempo, Andrej non resistette. Non era certo il tipo da infrangere un ordine, ma quella notte era particolarmente stanco, e per questo si arrese alla tentazione che lo assillava inesorabilmente da qualche ora, ovvero quella di ricorrere ai trucchi del mestiere che aveva appreso durante la sua carriera, tanto breve quanto intensa. Chiuse gli occhi, soltanto per un minuto o due, si disse tra sé e sé…
Fu svegliato da un dolore lacerante alla spalla, accompagnato da un secco frastuono che lo faceva sobbalzare sul gelido frammento di lamiera su cui era seduto. Urlò, senza pensarci. Urlò perché fu la prima cosa da fare che gli passò per la testa, ma il suo stesso urlo gli si ricacciò in gola. Aveva un panno umido legato attorno alla bocca, e le mani anch’esse vincolate allo schienale di una panca. E non era finita lì. Non era fermo, anzi, tutt’altro. Si accorse della velocità alla quale stava indirettamente viaggiando al momento in cui si sentì catapultare in avanti, come in seguito ad una inchiodata. C’era molta polvere, e faticava a respirare. Girandosi attorno scorse poco distanti da lui due figure immobili che imbracciavano le stesse armi che Andrej stesso aveva tenuto in mano durante la missione fino a quel momento. Pochi minuti dopo, altra frenata, seguita da un’altra sensazione di vuoto in avanti, come se Andrej fosse stato catapultato nuovamente. Nel frattempo sorgeva il sole, e un tenue raggio di luce cominciava ad affacciarsi attraverso dei fori che poteva osservare sulle pareti laterali del luogo all’interno del quale si trovava. Gli erano rimasti ormai pochi dubbi: era dentro un camion, in movimento per giunta. Cominciò ad agitarsi e a sbracciare nel tentativo di liberarsi dai vincoli che lo attanagliavano, ma invano. Le guardie che avevano il compito di tenerlo d’occhio sogghignarono divertite, mentre dalla postazione del conducente giunse il gracchiare di alcune imprecazioni in una lingua che non capiva, ma che allo stesso tempo non gli era nuova.
Dove lo stavano portando, Andrej non poteva saperlo. Quel che c’era di certo era il fatto che lo avevano catturato, e per una sentinella essere nelle mani del nemico non era mai di buon auspicio. Come se non bastasse, era invaso da un terrificante senso di colpa, per il quale non cessava di chiedersi che fine avessero fatto gli altri compagni per colpa della sua distrazione. Sicuramente doveva essersi addormentato, ma non riusciva a spiegarsi come poteva essere successo. D’altronde non era certo la prima volta che sfruttava il turno di notte per riposarsi un poco, eppure stavolta non aveva resistito al sopore, e si era addormentato. Si chiedeva dove lo stessero portando, e soprattutto il perché.
Era da sempre stato terrorizzato dall’idea di finire nelle mani del nemico, e proprio ora che si trovava nel bel mezzo della situazione in cui mai avrebbe sperato di incappare non sapeva come comportarsi. Era immobilizzato e non poteva parlare, di conseguenza non aveva una gran quantità di alternative. Decise di attendere fino a quando non l’avrebbero fatto scendere dal camion, seppur fosse conscio del fatto che in questo tipo di situazione, come gli avevano insegnato all’accademia, agire con anche mezzo secondo di ritardo poteva rivelarsi fatale. Nel frattempo cercava di catturare qualcosa dagli scambi di battute delle due guardie sedute di fronte a lui, ma il tedesco aveva da sempre costituito un grosso scoglio per Andrej, che a stento riconosceva le parole-chiave.
Una terza frenata, più irruenta delle precedenti, scaraventò le due guardie verso la parte anteriore del rimorchio, mentre Andrej curiosamente fissava, dalla propria stabile postazione, il suo sguardo verso di loro, che si erano invece letteralmente ritrovati “a gambe all’aria”. Stavolta fu Andrej ad abbozzare un’espressione divertita. Una delle due guardie gli si fece avanti con aria infastidita, e borbottò qualcosa che Andrej non comprese, poi lo strattonò, come per farlo alzare. L’altra guardia aprì il portellone del rimorchio con una sprangata, e un’ondata di luce coprì il viso di Andrej. Lo slegarono, e gli ordinarono di scendere. Appena fuori c’erano altre due guardie, meglio vestite e armate di quelli con cui aveva avuto a che fare sino a quel momento. Andrej fece per scendere, ma le gambe e le braccia intorpidite si fecero gioco di lui, e dopo essere inciampato sulla lamiera cadde rovinosamente nella polvere, tra le gracchianti risa delle guardie.
Davanti a lui sorgeva un enorme cancello spalancato. Le tre parole incise sul cancello stesso fecero deglutire Andrej e i prigionieri che, come lui, erano appena arrivati. Arbeit Macht Frei. La paura svanì all’istante, e subentrò il terrore.

Simone Torricini
Classe 4E – Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

2016-07-13T11:41:31+02:00