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Drones: un successo o un flop?

Lorenzo Paciotti Liceo Classico "Galileo" di Firenze

I Muse, formazione britannica molto in voga nella scena rock odierna, hanno fatto discutere molto sia la critica sia i fan col loro ultimo album, “Drones”, uscito in Italia lo scorso 9 giugno.
Le tematiche affrontate nelle canzoni, ognuna un episodio della storia di un uomo (“Drones” è infatti considerato un concept album), sono all’incirca le stesse dei due dischi precedenti (“The Resistance” e “The 2nd Law”), ovvero quelle scaturite dall’incontro del cantante e principale ideatore dei testi Matthew Bellamy con le celebri distopie di Orwell e Huxley. In tutti e tre gli album sono frequenti i riferimenti a un regime totalitario in cui, proprio come in “1984”, predomina un’ideologia di annullamento dell’individuo: un mondo governato da forze sconosciute alla gente comune, una casta associabile al Partito descritto da Orwell.
Questa impossibilità di conoscere i “burattinai” della società, assieme al martellante lavaggio del cervello imposto al resto della popolazione, costituisce il massimo fattore di angoscia in Bellamy, che si è concentrato sulla ricerca di una via di fuga da una realtà del genere.
Nella prima metà del disco, più energica e incisiva, sono raccontati i modi di quest’oppressione del sistema sull’individuo: troviamo aggressivi ritmi hard rock (“Reapers”, “The Handler”) corredati da testi oscuri e allusivi, un dialogo rabbioso fra un generale e il suo plotone (“Psycho”) su un sottofondo dominato dalla chitarra distorta, un pezzo dal sound molto elettronico caratterizzato da sintetizzatori (“Dead Inside”) e una trovata molto allegra e pop (“Mercy”), pericolosamente vicina al mainstream accuratamente evitato dalla band nei primi anni di carriera.
Quando però si deve iniziare a parlare di una reazione, le trovate musicali vacillano: si tratta della seconda metà dell’album, ben più goffa e lenta. Ci sono qui la poco fantasiosa “Defector”, la gioiosa “Revolt” dal sound simile a quello di “Mercy”, ma con meno creatività, e la ballad “Aftermath”, il pezzo forse meglio riuscito. Concludono il disco una traccia (“The Globalist”) i cui dieci minuti fanno sembrare i Muse una band che cerca di dimostrare ancora la passione per i pezzi più strutturati (ma senza la creatività di un tempo), ed infine la title track, un coro a cappella decisamente insipido se confrontato agli altri pezzi.
Messo in ombra dai capolavori prodotti in passato, “Drones” appare in definitiva come un disco incapace di elevarsi oltre un livello mediocre. I fan non possono che sperare in un ritorno all’età d’oro dei primi album.

Lorenzo Paciotti 3E
Liceo Classico “Galileo” di Firenze

2016-03-10T10:34:10+01:00