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Fenomelogia del Leicester di Claudio Ranieri

Simone Torricini Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

Il Leicester di Claudio Ranieri sarà noto ai posteri come quella squadra aggressiva, affamata e concreta capace di azzannare la Premier League facendo leva su di un potere tanto nascosto quanto devastante, conosciuto come spirito di sacrificio. La solidità difensiva – dove con il termine “difensiva” s’intende la fase stessa nella sua interezza – e il cuore delle Foxes hanno costituito, nell’arco della stagione, le armi più sorprendentemente efficaci di un organico che mai avrebbe potuto pensare di arrampicarsi tanto in alto attraverso altri mezzi. La romantica imprevedibilità del figlio d’arte Schmeichel, i chili e i centimetri della premiata ditta Morgan-Huth, passando per i pendolari Fuchs e Simpson fino ad arrivare a Drinkwater e Kanté, metronomi veri e propri dell’undici di Ranieri. Tutti, in questo Leicester, hanno fatto la loro parte. Là davanti, però, c’è chi riesce – per qualche strano motivo, che poi tanto strano non è – a catturare l’attenzione un pelo più degli altri. Perché se è vero che il pacchetto arretrato, in unione agli uomini dediti maggiormente alla fase difensiva, è stabilmente tra i migliori del campionato dalla fine di ottobre, evidentissimi meriti sono da riconoscere alla batteria di attaccanti di assoluto valore di cui Claudio “The Thinkerman” Ranieri può disporre. Se da una parte risulta azzardata la scelta di affibbiare l’etichetta di attaccante a Mahrez , che più e più volte chi segue il Leicester è solito vedere sotto la propria metà campo a dare man forte a Simpson, dall’altra lascia in tal senso una quantità pressoché inesistente di dubbi il trio Vardy/Ulloa/Okazaki. Sono loro, seppur in maniera differente, i fanti di prima linea dell’esercito di Ranieri. Sono loro i più spregiudicati, quelli che prendono l’iniziativa e si caricano sulle spalle i compagni nelle battaglie impervie e dall’esito pericolosamente dubbio. E poco male se si scagliano contro gli avversari a suon di allunghi in pressione invece che brandendo moschetti ed archibugi: a noi, che amiamo il calcio, piace così. Preparatevi ad un bel salto, direzione fanteria di Leicester: là davanti spingono, ci sarà da lavorare duro.
La fanteria d’assalto del Leicester punta in primo luogo sul sorprendente Jamie Vardy: la favola dell’ex metalmeccanico che a 25 anni calcava ancora i campi dilettantistici ormai la conoscono più o meno tutti. Così come chiunque abbia riservato un occhio di riguardo al Leicester di Ranieri durante la stagione in corso è perfettamente a conoscenza del record strappato dalle gelose braccia di Van Nistelrooy. Controllo, testa incredibilmente bassa e bordata di prima intenzione a sorprendere l’incolpevole De Gea. Jamie fa 13 in 11 gare, ed una prolificità ai limiti del pensabile gli garantisce lo scettro di attaccante più continuo nella storia della Premier League. Si giocava in novembre, andava in scena la 14esima giornata. Clamoroso bluff o personaggio destinato a mantenersi sotto la luce della ribalta? Chissà in quanti se lo saranno chiesto, chissà in quanti avranno confidato in una fase calante sin dai primi albori della sua stagione. Forse, sotto sotto, qualche dubbio se lo è concesso pure lui, o forse – paradossalmente – non ne ha neppure avuto il tempo. Jamie Vardy, l’uomo dei fatti concreti che più concreti non si può. L’uomo che zittisce gli stadi a suon di gol, respingendo con la sola cultura del sacrificio propria della Lower Class le critiche di chi, Jamie Vardy, può ammirarlo soltanto da avversario. Nel mentre in cui scrivo è a quota 22 reti, e l’attesissimo Man Utd-Leicester non è ancora andato in scena. Ma, comunque andrà a finire, a prescindere da ogni singolo dettaglio, Jamie Vardy sarà un incredibile successo. Che poi, diciamocelo, la diversità nel suo essere calciatore si nota eccome. E non parlo esclusivamente della cattiveria agonistica o della rabbia con cui si scaglia contro gli avversari, né tanto meno del suo stile di vita extra-campo, che – come raccontato da Ranieri in persona – non è propriamente definibile come “professionale”. Parlo di un modo di calciare, di arrivare a contatto con la sfera, che è unico nel suo genere e che risulta tanto indefinibile quanto a lui stesso collegabile nell’immediato. Lo rispecchia, lo identifica. Jamie Vardy non guarda in faccia il portiere, non tenta di sorprenderlo con scucchiaiate o finte di corpo. Jamie Vardy lo abbatte, lo scaraventa in rete con il pallone. E, tra parentesi, anche per questo motivo viene considerato il prototipo di calciatore che ogni allenatore desidererebbe nel proprio team. Mentalità e predisposizione al sacrificio non sono termini fini a se stessi, e il ragazzo lo dimostra – novità – con i fatti. Passionale, genuino, indomabile nella sua pazzia calcistica, Jamie Vardy ha un rapporto particolare con il pallone: non gli dà del tu come fanno in molti altri campioni, evidentemente più dotati di lui dal punto di vista tecnico, ma allo stesso tempo si infischia del Galateo e lo scaglia in porta sbeffeggiandolo con un “Voi” che più fasullo non si può. La fame di calcio è sempre la stessa, verrebbe da pensare. Perché, dopo anni ed anni trascorsi a fare la gavetta tra i dilettanti, non sono certo poche decine di reti in Premier League a sfamare Jamie Vardy. Potrebbe esserlo un campionato vinto da trascinatore? Può darsi. Ma, poiché qui, in veste di innamorati del calcio, si tifa rigorosamente Leicester, ogni pericolosa anticipazione finale – volgarmente conosciuta come gufata – verrà prontamente evitata.
Quanto a fanteria leggera, un grande apporto al Leicester è arrivato da Shinji Okazaki, che non svetta certo per fisicità, anzi: è probabilmente uno dei più mingherlini della truppa. Però lì in prima linea c’è anche lui, e si batte, eccome se si batte. Lo dicono i numeri: il giapponese ha fatto la sua comparsa in 33 delle 35 gare stagionali delle Foxes, soltanto tre delle quali per 90′. Se avete seguito il Leicester durante il corso della stagione vi sarete accorti della politica adottata da Ranieri, che, verosimilmente, è solito predicare al giocatore,nel pregara, una frase che non si discosta troppo da questa: “Oka, mi raccomando! Quando scendi in campo, dai tutto e non ti risparmiare neppure per un singolo istante. Fallo, è importante! Tanto il tuo nome è già segnato sul taccuino di quelli che verranno sostituiti nel secondo tempo”. E certamente non per demeriti, perché quando è chiamato in causa lascia raramente a desiderare. Tralasciamo i numeri (6 reti e 2 assists stagionali per lui): a segnare ci pensano altri, il suo compito è ben diverso. Shinji morde le caviglie, Shinji sradica il pallone dai piedi altrui. Shinji, soprattutto, allunga per camminare e scatta per allungare. E, proprio per questo motivo, figura costantemente tra i “corridori” di giornata. Quanto può apparire di rincalzo il suo profilo? Molto, moltissimo. Quanto lo è realmente? Meno di zero. Perché senza un giocatore con le sue caratteristiche Vardy faticherebbe a far salire la squadra in pressione, e ne deriverebbero un’enormità di conseguenze: dalla difficoltà nel concretizzare contropiedi, passando per un’inevitabile minore brillantezza negli ultimi trenta metri dello stesso Vardy, che si troverebbe – a quel punto – isolato tra le grinfie della retroguardia avversaria, fino ad arrivare ad un baricentro medio della squadra che si abbasserebbe inesorabilmente. Insomma, se ancora non vi siete convinti dell’apporto che Shinji Okazaki garantisce all’economia del gioco di Ranieri, provate quantomeno a riflettere sulla particolare propensione al gol decisivo che lo caratterizza.
E Ulloa? Ranieri aveva già predisposto tutto, ad inizio stagione… Il copione di “The Thinkerman” prevedeva il ruolo di protagonista assegnato a Jamie Vardy e quello del comprimario a Leonardo “Leo” Ulloa. Riconoscenza a rotoli, avranno pensato in quel di Leicester. E come biasimarli? Le reti dell’argentino avevano, di fatto, evitato pochi mesi prima la retrocessione alle Foxes, e proprio Ulloa era stato uno degli intoccabili di Nigel Pearson, che sedeva allora nelle vesti di manager sulla panchina del King Power Stadium. Leo quest’anno si è visto invece “costretto” ad accomodarsi in panchina, mai da sconfitto, però, e con grandissima professionalità. Testa alta, sempre e comunque, e uno spirito di sacrificio – tanto per cambiare – da fare invidia ai titolarissimi della maggior parte di squadre ben più blasonate del suo Leicester. Perché poi, in fin dei conti, i suoi gol li ha pure fatti. Sei in trentaquattro partite, di cui soltanto sette giocate dal primo minuto ed una soltanto dall’inizio alla fine. Media gol pari a una rete segnata ogni 156 minuti. Meglio, tanto per dirne un paio, di mostri sacri del calibro di Giroud e Diego Costa. Anche per Ulloa, così come accennato parlando di Okazaki, vale il discorso della tempestività. Leo entra e segna. Leo sostituisce e segna. Leo lotta e segna. Il minimo comun denominatore è costantemente il medesimo. Leo segna. Grossolano, ingombrante, addirittura impacciato, talvolta. Ma, in questa Premier League, di centravanti di scorta migliori di lui non se ne vedono in tanti. Ciò che maggiormente colpisce del suo essere uomo ancor prima che attaccante è una dedizione alla causa sorprendente: si cala nella parte con tutto se stesso, prestandosi al servizio dei compagni con l’umiltà di cui solo chi vive Leicester può disporre. Certo, è indubbiamente l’anno buono per le Foxes, e allo stesso modo lo è anche per Leo Ulloa. Ma quando in un organico spuntano rincalzi del genere, beh, il Ranieri di turno non può fare altro che sedersi ed ammirare, compiaciuto ed appagato. Con un attacco così è tutto più facile. Isn’t it, The Thinkerman?

Simone Torricini
Classe 4E – Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

2016-07-22T17:13:51+02:00