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I nostri equivalenti

Lorenzo Fortunati Scuola Secondaria di primo grado “Puccini” di Firenze

 

Era la notte prima della partenza dell’astronave, avevo paura ma allo stesso tempo ero molto eccitato, non sapevo se era giusto partire, insomma avrei lasciato la mia famiglia per tanto tempo…
Tutte le telecamere erano puntate su di me e c’era un giornalista un po’ timido, che però diceva un sacco di cose false. Intanto io e i miei compagni di lavoro, mentre ci vestivamo, sentimmo un rumore di passi: probabilmente era uno di quegli addetti alla sicurezza che controllavano tutta la vettura.
Prima di partire il giornalista mi concesse di pronunciare un piccolo discorso: dissi che ero molto eccitato e che questa missione doveva essere sicuramente completata. La missione consisteva nell’atterrare su Urano e controllare se ci fossero esseri viventi.
Il giornalista partì con il conto alla rovescia: -3, – 2, – 1… i motori si accesero e l’astronave incominciò il suo lungo viaggio interplanetario.
Poi, quando fummo nello spazio, ci rendemmo conto che la navicella aveva preso una rotta sbagliata e, quando capimmo che sarebbe stato impossibile tornare indietro, un asteroide ci colpì rompendoci il motore. Io chiamai soccorso, ma eravamo troppo distanti e, come se non bastasse, eravamo non rintracciabili.
Sbarcammo su un pianeta strano: era di colore viola con qualche sfumatura rossa, era quadrato e completamente vuoto. Non c’era niente. Io e i miei compagni andammo ad esplorare il territorio e dopo ore di cammino trovammo una specie di base abitata da qualcuno.
Entrammo, osservammo con attenzione l’interno e trovammo una stanza abitata da un essere vivente, non so bene cosa avesse in testa ma sorreggeva due specie di antenne e parlava una lingua a noi ignota. Le sue antenne brillarono: credo che stesse comunicando con uno della sua specie e credo che gli stesse dicendo di noi.
Subito arrivò un esercito di questa strana specie che ci mandò in un carcere buio. Noi ovviamente eravamo spaventati ma allo stesso tempo eravamo un po’ arrabbiati. Volevamo addormentarci, ma la paura non ce lo permetteva, sentivamo dei rumori strani come gente che rideva e quando ci girammo dall’altra parte del locale dove eravamo rinchiusi: scoprimmo una sorta di ologramma a forma di faccia che appariva e scompariva, appariva e scompariva…
Alla fine ci addormentammo e ci risvegliammo il giorno dopo ancora chiusi nella cella con una ciotola che conteneva qualcosa di viscido che ci rifiutammo di mangiare.
Poi ci trasportarono in una specie di arena dove ci attaccarono a delle corde, arrivò di nuovo un esercito armato (che, immagino, avrebbe dovuto ucciderci). Ma un mio compagno si slegò e così eseguimmo il suo trucco anche noi. Forse eravamo liberi…
Scappammo via ma per poco, perché arrivarono altre guardie. Avevamo una sola possibilità: lottare.
In una tasca avevamo tutti quanti dei farmaci che tirammo fuori per spaventare i nemici, rubammo loro le armi e ce ne andammo via. Riuscimmo ad orientarci verso un’astronave aliena e vi salimmo di gran fretta, accendemmo il quadro di comando.
Da lontano potevamo vedere la nostra galassia: il nostro pianeta, la nostra razza era il prossimo obiettivo dei nemici. L’unica cosa che potevamo fare era tentare di rubare una macchina ipergalattica ai nostri avversari alieni.
La accendemmo e partimmo, ma purtroppo dopo poca strada il motore principale si spense: la macchina era rotta, evidentemente. Allora decidemmo di atterrare in un’altra galassia dove erano presenti anche lì forme di vita uguali alle nostre.
Alla fine avevamo trovato i nostri equivalenti, solo in un’altra galassia, sfortunatamente priva della tecnologia per tornare indietro. La nostra missione era stata completata, anche se noi non trovammo mai il modo di tornare a casa.

Lorenzo Fortunati
Classe 1B – Scuola Secondaria di primo grado “Puccini” di Firenze

2016-07-13T14:16:34+02:00