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Racconto di Natale

Ginevra Comanducci Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

 

– Mi chiamo Agnese Cilli… no… Ciulli. Sono Agnese Ciulli e sono qui da alcune settimane. Mamma ha detto che starò qui solo per poco tempo. Ha detto che sarebbe ritornata… sì, ritornerà, lei lo fa sempre -.
Dei passi si avvicinavano. Erano lontani, ma regnavano nel silenzio.
– Mi chiamo Ciulli, sono qui da pochi giorni. Agnese ha detto che la mamma sarebbe ritornata a prendermi, lei lo fa sempre, io mi fido di lei -.
Un tuono rimbomba nella notte. Un grido. La piccola finestra risplendeva di una luce troppo bianca, quasi accecante, e brillava ancora di più su quella parete grigia, sporcata dal tempo. Quella finestra… così piccola, così in alto, così lontana. In quel momento, in quel luogo in particolare, quella finestra era la perfetta metafora della speranza. Perché cos’è veramente la speranza? Solo un piccolo stimolo che ti fa credere di poter far tutto anche con le più piccole possibilità? No, è ben di più. La speranza è un mostro, uno di quelli che ti mangia da dentro. La speranza illude, fa male. La speranza deve essere guadagnata, quella vera è rara. Perciò è come quella finestra: irraggiungibile.
Il rumore del tuono si propagava nell’aria, insistente, come la paura. Se la speranza la puoi perdere e non ritrovare più, la paura è sempre lì, pronta a prenderti nei più dolci dei modi. Si avvicina lentamente, ti avvolge del suo abbraccio caldo e, dopotutto, non è rilassante quando ti culla? Insomma, se si ha paura di qualcosa, e si ha sempre paura di qualcosa, almeno una certezza ce l’abbiamo nella nostra vita: la certezza di essere vivi, per esempio. Se hai paura vuol dire che provi ancora degli stati d’animo, così anche i conseguenti sentimenti ed emozioni. La paura ti rende vivo. Senza la paura, senza provare nulla, cosa ti resta? Niente. E non è bello non avere niente, perché quando non si ha niente si è come i morti: non vivi. Se non hai paura non sei vivo. Certo, puoi continuare a respirare. Ma cosa mi dici dei tuoi pensieri? Loro no, non respirano più a quel punto. Perdi ogni interesse: ascoltare la tua canzone preferita può diventare l’equivalente di fare una frazione algebrica in matematica, sai, quella materia che non hai mai sopportato… Leggere non ha più alcuna importanza. Dopotutto, che senso ha crearsi un mondo, una via di fuga, se già la tua prima e vera possibilità di vivere è andata nei peggiori dei modi? Avere freddo o avere caldo, stare bene o stare male, essere affamati o privi di appetito… non ha più senso.
Un secondo tuono, più forte, più luminoso.
– Sono Agnese Ciulli, sono qui da troppo tempo. Mia mamma mi ha abbandonato, ha sempre voluto farlo -.
Lei era Agnese, una di quelle ragazze che era morta più di una volta.
– Ma perché? Perché sei nata tu, perché proprio a me! Altro che permanenza di pochi mesi! Io ti lascio per tutta la vita in questo ospedale psichiatrico! –
Lei era Agnese, sua mamma l’aveva sorpresa in fin di vita nel bagno della dependance. Aveva chiamato subito il pronto soccorso, l’ultima cosa che si sarebbe sognata di fare la vigilia di Natale. Era la terza volta che era successo dall’inizio dell’autunno. Medici, psichiatri, pillole… non erano serviti a niente.
Agnese stava male, ma nessuno l’aveva capito sul serio. Lei sì, se ne era accorta una sera, quella di Halloween. Era andata ad una festa. Non che ne avesse veramente avuta la voglia, ma Emanuele aveva insistito. E lei sapeva bene che se il suo migliore amico si metteva un’idea in testa, difficilmente non la portava a termine. Probabilmente aveva bevuto troppo, o forse non stava facendo attenzione, fatto sta che aveva investito un ragazzo. Sul momento non pensava fosse successo qualcosa di grave, respirava ancora. I suoi occhi si posarono poi sul trucco di quel “vampiro” sdraiato sulle strisce pedonali. Il sangue che gli colava dalla bocca, così rosso, così verosimile… solo quando una ragazza si era avvicinata e aveva lanciato un urlo, Agnese aveva capito che quello era sangue a tutti gli effetti. Intorno a lei la gente o chiamava un’ambulanza o piangeva o era semplicemente rimasta scioccata. Ma lei no. Non un brivido le percorse la schiena né le venne un nodo allo stomaco. Nessuna preoccupazione di quello che le sarebbe successo di lì a poco. Niente di niente. Emanuele era lì, davanti a lei. Le muoveva una mano davanti agli occhi, ma invano. Agnese era assorta, in che cosa non lo sapeva neanche lei. Pian piano alzò lo sguardo vuoto, posandolo sugli occhi del suo amico. Ecco, quelli sì che erano vivi. Avevano paura. Paura che il ragazzo investito fosse morto. Paura che Agnese venisse rinchiusa in una sottospecie di carcere minorile. Paura di come i genitori della sua amica avrebbero reagito davanti a tutto ciò. Paura che sua madre, una donna che si basava molto sulle apparenze, non gli permettesse di vedere ancora per una volta quella ragazza che, in fin dei conti, amava come una sorella. Emanuele continuava ad implorarle di rispondergli, ma la sua voce era ovattata. Sembrava come se avesse pigiato un pulsante per mettere il muto a tutto il mondo. E poi cominciarono a sparire i colori. Un mondo impercettibile in bianco e nero. Ecco, proprio così era la vita di Agnese.
Un mese dopo l’incidente, il 30 novembre, Agnese era in bagno. Fissava la sua immagine allo specchio, mentre dal salotto provenivano le grida gioiose dei suoi fratellini, probabilmente perché il padre aveva comprato loro un nuovo calendario dell’avvento. Che carini, così spensierati. Un sorrisetto comparve sulla faccia biancastra di Agnese. Era più magra dall’ultima volta che si era osservata così attentamente allo specchio. Una lacrima le bagnò una guancia. Chiuse la porta, aprì la finestra e si accese una sigaretta. “Caro Babbo Natale” cominciò a sussurrare, o probabilmente a pensare tra sé e sé “se davvero esisti, ti andrebbe di farmi un regalo vero, almeno per quest’anno? Non ti chiedo nessun nuovo I-phone, nessun lettore musicale e nemmeno un viaggio lontano da qui come la scorsa volta…” in quel momento le risate dei bambini erano più forti “… ah, come dimenticare quando tutta felice ti preparavo fiduciosa i biscotti, il latte e la letterina di benvenuto vicino al caminetto? Me ne stavo lì tutta orgogliosa, soprattutto quando la mattina dopo vedevo le tracce della tua visita. Vorrei tornare come allora” espirò una grande nuvola di fumo “Caro Babbo Natale, sono stata buona quest’anno. Mamma dice che mi porterai tante caramelle. Ma per favore, medita anche sul fatto che mi potresti portare una vita più decente. Grazie.” E così finendo quella sua lista di regali esistenziali, Agnese pianse al ricordo di tutto quanto, dopo tanto tempo: il bullismo trovato nella nuova scuola, la bassa autostima che le dava la società, Emanuele che non si faceva più sentire da Halloween… Chiuse gli occhi e spense la sigaretta sul palmo della sua mano. All’inizio le bruciò un po’, ma poi ci si abituò. Era rilassante, quasi liberatorio. Da quel giorno non faceva più a meno di fumare, solo per rivivere quel momento, pensando che in fondo se lo meritava. E qui iniziarono le prime visite dallo psicologo. Cominciò ad andare dallo psichiatra la prima volta che tentò il suicidio, affacciandosi da una finestra del quinto piano. Continuarono ad andare avanti e indietro dall’ospedale, per lo stesso motivo: depressione. Quando aveva ingoiato delle pillole nella dependance, aveva superato il limite. Lo psichiatra non sapeva più come fare, non poteva neanche più darle delle medicine dopo quello che era successo.
E ora Agnese era lì, in quell’ospedale psichiatrico, da sola, al freddo, la vigilia di Natale. Erano passati quattro anni, ma lei non lo sapeva. Era stata troppo tempo in isolamento, chiusa in quella stanza dalle pareti in gommapiuma. Era finita lì poco dopo aver tentato di dare fuoco alla sua vecchia camera. I dottori avevano pensato che avesse voluto uccidere le altre persone, non avevano mai pensato che lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere, se non a se stessa. Ormai era stata inquadrata come pazza.
Era la vigilia di Natale, ma lei non lo sapeva. Aveva troppi ricordi confusi per la testa. Teneva in mano quattro foto. In una c’era lei con un ragazzo. In un’altra teneva in mano il diploma. Nella terza apriva un regalo di compleanno e nell’ultima rideva. Dietro ad ognuna aveva appuntato delle frasi. L’unica cosa che ricordava era che le aveva scritte lì perché quelle quattro foto erano l’unica cosa che poteva tenere. Erano pensieri confusi, come del resto ci si poteva aspettare da lei.
– Ci sono spettri, spettri dovunque – iniziò a leggere ad alta voce, balbettando a fatica, come non riconoscendo le lettere delle parole – Loro mi seguono, sono qui anche ora. Alcuni sono dei mostri. Gli altri non li vedono, ma io sì. Stanno pronti a farti venire paura, ma con me non funziona. Io li vedo, perciò io non posso averne paura. Ora sono sotto l’auto di mio padre e sbattono delle cose su di essa. Mia madre dice che sono dei sassi che finiscono sotto le ruote, ma io so che non è così -. Prima foto.
– Ci sono poi quelli che sono invisibili davvero, la gente li schiaccia e nemmeno chiede scusa, proprio perché non li vede. L’altro giorno erano sull’autobus e prendevano le sembianze di coloro che prima erano seduti sui sedili dove si mettevano loro -. Seconda foto.
– Oggi mi è passata rasente la tramvia. Mi sono immaginata morta sui binari. Non so se è stata paura o qualcos’altro -. Terza foto.
– Oggi è Natale. Un ragazzo è venuto a trovarmi. Dice di chiamarsi Emanuele. Dice anche di conoscermi. Ha cominciato a parlare del Natale. Dice che a me piace, ma io lo odio. Sono sempre chiusa qui, mamma non torna a prendermi con i regali e mentre tutti i pazienti guardano un film, io devo stare qui con quei mostri che i dottori chiamano pensieri. Non ce la faccio, sono troppo cattivi e io troppo debole. Emanuele dice che quando eravamo piccoli e nevicava io facevo i pupazzi di neve e poi prendevo la loro testa e gliela lanciavo addosso. Dice che poi andavamo a casa sua per bere la cioccolata calda. A Natale, diceva, a me piaceva stare con lui, perché gli volevo bene. Ma come posso aver voluto bene ad una persona che non ricordo? Emanuele ha pianto, dice di sapere che in fondo a me c’è la vera Agnese, quella sempre sorridente, quella che a Natale, ogni anno, comprava una nuova decorazione per l’albero, comprava migliaia di regali per i suoi amici, l’Agnese che amava i film natalizi con le renne, l’Agnese che continuava a scrivere lettere per Babbo Natale solo per coltivare un’innocenza più lunga nei suoi fratellini. Agnese era una ragazza che amava il Natale perché era il giorno in cui poteva al meglio esprimere il suo affetto, dice Emanuele. Ma io non ricordo, non ricordo niente…-. Quarta foto.
-Chi è Emanuele?- Pensò Agnese, stringendosi la testa fra le mani, camminando avanti e indietro come presa da follia, nel tentativo di ricordare.
Emanuele era quel ragazzo che la veniva a visitare da quattro anni, ogni vigilia di Natale.
Quel ragazzo che ogni anno vedeva morire un po’ di più la sua piccola migliore amica.
Quel ragazzo che in tutto quel dolore, nutriva una dolce speranza quasi inesistente nel rivedere, presto, la sua Agnese. Ecco qual era il regalo che voleva per Natale Emanuele: sempre più speranza.
Quel giorno lui entrò, come ogni 24 dicembre, con un piccolo cofanetto in mano.
– Chi sei? – domandò Agnese.
– Un amico. Il tuo migliore amico. Sono Emanuele, mi riconosci? –
– No… io non ricordo niente! – Agnese prese il pacchettino, ma lo posò subito sul letto. Emanuele si sedette su una sedia e iniziò a parlare: – Peccato. Avremmo avuto tanto di cui discutere, se ti fossi ricordata di me. Ma fa niente, sarà per un’altra volta. Ma, comunque, sei pronta per domani? Stasera arriverà Babbo Natale e ti porterà quelle caramelle che hai sempre desiderato. Le tue preferite erano una specie di zuccherini aromatizzati alla frutta. Per Natale mia madre te le comprava sempre, a te non piaceva né il Panettone né il Pandoro. Non sei mai stata di molto appetito ma, cavolo, quanto mangiavi alle cene del 25 dicembre! Non ho mai capito se era gola o desiderio di renderci felici, ma tu lo eri lo stesso. Ti divertivi sempre a indossare delle orecchie finte da renna, solo per far ridere i tuoi fratellini. Scrivevi le lettere per Babbo Natale, solo per mandare avanti la loro infanzia. Ti piaceva giocare con la neve, anche da grande. Poco ti importava dei pregiudizi, a te andava bene far tutto pur di stare con la tua famiglia. E se fosse servito uscire a -3° con addosso solo una maglietta, lo avresti fatto. Mi ricordo quando avevamo fatto un pupazzo di neve, gli avevi staccato la testa e me l’avevi lanciato contro. Avevamo riso per non so per quanto tempo. Anche quando la depressione era agli inizi, comunque lottavi per poterti mostrare felice. Ora che ci penso a te non è mai importato veramente di quelle caramelle. A te non è mai importato ricevere regali. Senza che noi ce ne accorgessimo, tu ce ne hai donati tanti e diversi, ogni anno. Eri un vero miracolo, spero tanto di riaverti indietro. Voglio vedere quei tuoi occhi verdi risplendere di nuovo, di un verde brillante, proprio come la speranza – e così dicendo Emanuele si alzò, l’abbracciò e uscì. Agnese lo rivide molte altre volte, sempre per la vigilia. Ogni volta le raccontava le stesse cose, ogni volta fiducioso in ciò che faceva. Intanto Agnese cominciava ad avere delle “visioni”. Ogni tanto flash di una vita che non ricordava l’assalivano e poi le faceva male la testa. Ricordava una bruciatura sul palmo, poi delle pillole e le vertigini. In quei momenti sentiva delle voci che le chiedevano: – Agnese, cos’hai fatto? – Altre volte vedeva una tramvia, Emanuele che la stringeva a sé subito dopo preoccupato per quello che sarebbe potuto succedere se non l’avesse presa in tempo. Vedeva un incidente, vedeva terrore intorno a lei. Vedeva tristezza, gioia, paura. Erano tutti piccoli frammenti, alcuni orribili, altri piacevoli. E tutto questo solo grazie alle visite di Emanuele. Dopo tanto tempo, finalmente, tutto cominciava ad incastrarsi nei giusti ingranaggi. Agnese cominciava a ricordare, cominciava a capire. I medici decisero di darle una seconda possibilità, gli psichiatri la curarono. Una nuova luce invase i suoi occhi.

Era la vigilia. Mancava un’ora, e sarebbe uscita. Emanuele era da tanto che non si faceva vedere. Di sicuro lui sarebbe stata la prima persona che sarebbe andata a trovare. Era elettrizzata solo all’idea. Per fortuna quell’anno era nevicato, avrebbero potuto fare dei pupazzi di neve insieme. E bere la cioccolata calda e mangiare quelle caramelle che da tanto aspettava. Avrebbero potuto stare insieme, come ai vecchi tempi. Sì, avrebbero potuto fare tante cose. Se ce ne fosse stato il tempo… Uscita dall’ospedale psichiatrico prese un taxi e tornò a casa. Lì però non ci abitava più la sua famiglia. Una signora anziana le spiegò che i vecchi proprietari erano morti, i loro figli erano andati a vivere due isolati più avanti. Ad Agnese sembrò di cadere in un profondo abisso. Forse la prima vera sensazione “viva” che aveva sentito dopo tanto tempo. Ma poco dopo le sembrò come cadere di nuovo in quella sua malattia: non le fece poi né così caldo né così freddo. Ma si rassicurò poco dopo. Aveva paura, paura del passato. Aveva paura, dunque era viva. Ma quanto tempo era passato? Tempo. Solo una questione di tempo… Lei era stata strappata dalla sua giovinezza troppo presto. Non si era potuta godere la vita, non si era potuta godere la sua famiglia, né tutti quegli anni che il tempo le aveva bruciato. Non conosceva affatto i suoi genitori, in fin dei conti. Diciannove anni vissuti tra tensioni e urla non potevano esser bastati a creare quel legame affettivo che c’è in una vera famiglia. Non la conosceva, non se la ricordava bene, come poteva piangere per qualcosa di così lontano da lei in quel momento? Andò a trovare i fratello più piccolo. Le raccontò tutto. Erano passati trent’anni. Loro padre era morto di infarto, loro madre semplicemente per natura. “Dopotutto aveva già cinquant’anni quando io ne avevo quattordici”, pensò Agnese. – Ed Emanuele? – domandò – Dov’è? –
– Emanuele non è più qui –
– Ah, dov’è andato? –
– Agnese, non è più tra noi neppure lui -.
Avete presente un dizionario che cade su un letto? Le vertigini da sopra la torre di Pisa? Avete presente l’ansia prima degli esami? L’incredulità che segue un dubbio confermato, che poi alla fine era più una certezza che non si sarebbe voluto avere? I mal di testa fortissimi? Gli occhi che bruciano quando cerchi di trattenere le lacrime? I pianti liberatori? Avete presente quando la testa rimbomba e ti senti svenire? Quando vi si appanna la vista? Agnese era così. In quel momento era esattamente così. Emanuele era morto. Non era più andato a trovarla perché era morto. Non c’era più, non c’era più quella persona che le aveva davvero voluto bene, che l’aveva aiutata e che aveva sempre avuto un briciolo di speranza da donarle. Il fratello di Agnese sorrise e l’abbracciò.
– Da quando non ci sei più stata ogni Natale veniva a trovarti per cercare di ridarti la memoria e la forza di combattere. Voleva solo che tu tornassi quella di prima, non ha mai chiesto altro per Natale. E ora tu sei qui, la nostra piccola dolce Agnese. Sarebbe felice per questo. Ma in fondo credo che lo sia lo stesso. Tu non hai mai fatto altro se non renderci felici, sempre -.

Ginevra Comanducci
Classe 2C – Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

2016-07-25T12:03:02+02:00