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Storia di Natale

Chiara Monetti Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

 

Caterina si ricordava bene quando aveva smesso di credere a Babbo Natale. Aveva appena cinque anni, e da mesi assillava sua madre con la stessa monotona domanda: “Ma davvero Babbo Natale esiste?” non riusciva veramente a capire: esisteva Babbo Natale, ma non le fate, gli elfi o i draghi. C’erano un paio di incongruenze che sua madre, esasperata, non si era più sentita di spiegarle. Quindi, un giorno, sfinita da quella tremenda insistenza che è propria solo di un bambino molto curioso, rispose quasi con rabbia: “No, non esiste!” Caterina non ci restò troppo male, ma credeva ingenuamente di aver fatto chissà quale scoperta. Così, si sentì in dovere di far conoscere alla sua cerchia di amici questa incredibile notizia.
Il giorno seguente all’asilo, salì su una sedia e urlando richiamò l’attenzione di tutti:
“Vi devo dire una cosa: Babbo Natale non esiste!”
Facile immaginare il disappunto generale. I bambini le urlavano contro offese e ingiurie, molte delle quali neanche pertinenti, ma che ad un bambino possono sembrare cose terribili. La maestra, una napoletana giovane e gioviale di nome Marcella, cercava di calmarli, ma piangeva dal ridere e cercò di far ritrattare a Caterina quello che aveva detto. Fu tutto inutile. Anzi, la bambina tra gli strilli generali, rincarò la dose e, con un’alzata di spalle irriverente, e secondo lei, molto matura aggiunse: “Mi dispiace, non ci posso far niente.”
Perché avrebbe dovuto mentire per far piacere agli altri? L’onestà intellettuale, o forse la semplice ostinazione, negli anni non le era affatto scomparsa. Purtroppo quella rivelazione le costò vari mesi di tirate di orecchi, di disegni rovinati e la rottura col fidanzatino Paolo.
A distanza di anni ripensava con piacere (quasi con orgoglio) a quell’impresa infantile. E con questi pensieri si stava addormentando, davanti alle fiamme ipnotiche del camino, accoccolata in posizione fetale sul divano, la sera del 24 dicembre. Si sarebbe addormentata, e la mattina seguente magari sotto l’albero avrebbe trovato, insieme ai suoi genitori di ritorno dalla settimana bianca, quel disco che tanto desiderava e un paio di libri. Eppure qualcosa non glielo permise. Prima ci fu un rumore sommesso, che ignorò nel dormiveglia. Poi un tonfo sordo. Allarmata, spalancò gli occhi. Si infilò le pantofole e prese gli occhiali dal tavolino, che si accomodò sul naso aquilino. Restò immobile per qualche secondo, indecisa sul da farsi. I rumori continuavano e venivano dalla porta finestra. C’era il rotolante abbassato e non si vedeva niente. Nonostante la sua curiosità, sapeva che fuori poteva esserci un gatto quanto un tipo pronto a strangolarla. No, OK, forse la sua fantasia alimentata da un po’ di paura, stava viaggiando un po’ troppo. Stette in ascolto e notò che adesso i rumori si erano trasformati in gemiti confusi. Decise che la cosa più saggia da fare era uscire di casa senza far rumore e, prendendo la strada da cui si aveva una buona visuale del suo balcone, che era sul lato nascosto della casa, vedere se c’era qualcuno. In quel caso avrebbe chiamato la polizia con il cellulare, altrimenti sarebbe tornata dentro più tranquilla e sentendosi anche un pochetto stupida. Sì, avrebbe fatto così. Cercava di autoconvincersi di essere perfettamente calma, ma dentro di lei rimpiangeva di non essere andata alla festa con i suoi compagni di classe. Non si sarebbe divertita, ma sempre meglio che avere a che fare con un ladro.
“Pss, Caterina aiutami! Ti prego esci fuori!” ecco, questo non se l’aspettava. Era già con la mano sulla maniglia. Adesso sapeva che qualcuno fuori c’era davvero e che quel qualcuno addirittura la conosceva. Inoltre dalla voce sembrava molto sofferente, come se si stesse sforzando molto. Cautamente si avvicinò alla finestra e tirò su il rotolante.
“Sbrigati, dai, non ce la faccio ancora per molto!”
Più decisa, ma ancora un po’ titubante uscì in terrazza. Nevicava da ore e i tetti delle case erano coperti da uno spesso strato di ghiaccio. Non c’era nessuno. Poi guardò giù dal balcone. Babbo Natale si reggeva alla ringhiera sospeso nel vuoto. O meglio, un tipo vestito da Babbo Natale. Dopo il primo attimo di sgomento, Caterina gli tese la mano e con molta fatica l’aiutò a tirarsi su.
“sei un po’ magro per essere Babbo Natale…”
La situazione era più che imbarazzante. Aveva trovato un ragazzo appeso al suo davanzale, vestito da Babbo Natale, con un sacco che invece dei regali conteneva un piede di porco. Facile fare due più due. Lui si tolse la barba finta, il cappello e gli occhiali. Un ragazzo moro, rosso in viso e con il capo chino disse: “Credevo che saresti andata alla festa di natale, così… immagino che adesso chiamerai la polizia…”
Se davanti avesse avuto una qualsiasi altra persona effettivamente Caterina non ci avrebbe pensato due volte. Ma davanti a lei c’era Luca. Il suo vicino di casa, il suo compagno di giochi. Lo conosceva, le stava addirittura simpatico.
“Ma perché?”
“Beh, ecco, vedi… mi servivano dei soldi… e se ne avessi presi pochi non credevo che avreste neanche sporto denuncia…”
Ma la ragazza il perché lo sapeva anche troppo bene. Era da mesi che non lo vedeva più e che sentiva dalla casa accanto le urla di suo padre. Poche settimane fa aveva sentito che era scappato, abbandonando la moglie. I soldi non erano per lui.
“E perché questo vestito?”
“Ho lavorato fino ad adesso al centro commerciale, e avevo paura che se avessi tardato qualcuno avrebbe potuto cogliermi in flagrante. Invece non sono neanche riuscito a fare un salto di appena due metri.”
Luca aveva esagerato. I balconi delle rispettive case distavano molto meno di due metri, ma non se la sentiva di mortificarlo ancora. Improvvisamente le fece una tale pena, che si sentì pizzicare gli occhi.
“che ne dici se continuiamo a parlare in casa? Qua si gela.”
“Dici davvero?”
Sorridendo gli prese la mano e entrarono in casa. Lo fece sedere davanti al camino e notando che era tutto bagnato, gli dette dei vestiti di suo padre per cambiarsi.
“Quanto sei rimasto là fuori?”
“Parecchio, ma non te lo so dire con esattezza. Ero arrivato al limite, quando mi è sembrato di vedere della luce dentro casa dai buchi del rotolante. Così ho provato a chiamarti. Se non ci fossi stata, come credevo all’inizio, a quest’ora sarei con il collo spezzato sul marciapiede.”
Caterina gli versò del caffè bollente.
“Fino ad un anno fa ci vedevamo spesso. Se solo avessi chiesto aiuto, saresti potuto passare dalla porta principale invece che dal terrazzo” disse con tono duro.
Ma se ne pentì subito, perché in quel momento avrebbe solo voluto consolarlo. Non era troppo brava in questo. Adesso lui distoglieva lo sguardo. Caterina non sapeva neanche se andava ancora a scuola o se l’aveva abbandonata per fare dei lavoretti occasionali. Quante ne doveva aver passate… Non spettava certo a lei giudicarlo.
Gli posò una mano sulla spalla e disse: “Se vuoi puoi raccontarmi tutto.”

“Amore, siamo a casa!”
Susanna si tolse il cappotto e cercò con lo sguardo la figlia. Sapeva che l’avrebbe trovata a dormire sul divano, come ogni mattina di Natale, nonostante avesse ormai diciott’anni. Questa è la magia delle feste. Uno può permettersi di tornare bambino. Quello che stupì la donna fu vedere che non era sola. Sorrise e richiuse silenziosamente la porta.

Chiara Monetti
Classe 2C – Liceo Classico Statale “Galileo” di Firenze

2016-07-22T17:49:19+02:00