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Shoah e porajmos, al liceo Marconi di Pesaro la memoria si fa con l’arte

Al centro del convegno 'A forza di essere vento', letteratura e musica per ricordare e sopravvivere

PESARO – Ieri e oggi, per gli ebrei di tutto il mondo, è ‘Yom HaShoah’, la giornata del ricordo degli ebrei che furono uccisi durante l’Olocausto. Proprio in questa occasione, il liceo ‘Marconi’ di Pesaro ha organizzato una due giorni di studio online dedicata ai nuovi orizzonti della storiografia sulla deportazione in Italia. ‘A forza di essere vento’, questo il nome del convegno in corso da stamane e fino a domani, sta dando a docenti e studenti marchigiani l’opportunità di incontrare testimoni ed esperti ed affrontare il genocidio nazista da diverse angolazioni, comprese quelle incarnate dalla letteratura e dalla musica.

Così ha fatto Corrado Bologna, filologo e docente di letteratura alla Scuola Normale di Pisa. Di libro in libro, ha ripercorso tratti della storia dello sterminio attraverso lo sguardo di letterati classici e contemporanei, da Dante a Primo Levi. Proprio Levi, letterato e testimone, è stato il protagonista indiscusso dell’incontro. Levi, eretto da Bologna simbolo di “memoria necessaria”, che guarda in faccia l’orrore della deportazione e lo trasforma in poesia; Levi che – scrive in ‘Se questo è un uomo’ – durante la prigionia si attaccava alla letteratura tanto che avrebbe dato “la zuppa di oggi” pur di ricordare un verso di Dante, spiega Bologna; Levi che, in versi, condanna il gerarca Adolf Eichmann a non essere dimenticato e a passare tante notti insonni quanti sono gli ebrei che ha ucciso nei campi di sterminio.

Bologna esorta quindi a cogliere il messaggio letterario: odiare gli indifferenti, con le parole dell’intellettuale comunista Antonio Gramsci, ma anche ricordare coloro che ancora oggi, nel Mediterraneo, vivono e muoiono senza nome, parafrasando invece il poeta Eugenio Montale. L’indifferenza così come il negazionismo sono “malattie del nostro tempo, ma voi ragazzi ascoltate coloro che sanno e che hanno le prove. A chi nega buttate in faccia queste foto- dice poi mostrando le immagini scattate dai nazisti nei campi di concentramento e raccolte nel libro ‘Album Auschwitz’- queste sono un documento storico inconfutabile, al pari delle foto di Napoleone. Voglio proprio vedere se avranno il coraggio di negare l’esistenza di Napoleone”. “Libertà e liberazione- conclude Bologna prendendo in prestito le parole di Umberto Eco in ‘Fascismo eterno’- sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: non dimenticate”.

Di fotografie si è servito anche Santino Spinelli. In arte Alexian, Spinelli è un rom italiano abruzzese. Musicista, è figlio di un deportato e oggi insegna lingua e cultura romaní all’università di Chieti. “Tra rom, sinti e manouches sono oltre trentamila le vittime” del ‘samudaripen’ o ‘porajmos’, il modo con cui i rom chiamano gli anni dello sterminio che significa letteralmente ‘tutti morti’. Minoranze che, al pari di ebrei, omosessuali, dissidenti politici, alcolisti, prostitute, erano considerate inferiori e in qualche modo colpevoli anche se della sola colpa di essere nati, come ripete spesso la senatrice a vita Liliana Segre. Rom e sinti, in particolare, bollati come ‘zingari’, erano rappresentati dalla propaganda nazista come reietti ed emarginati, un immaginario stereotipato “che resiste come resiste l’eteronimo dispregiativo di zingaro che infatti usiamo ancora oggi al posto dell’etnonimo corretto di rom” puntualizza Spinelli. Ecco, quindi, che le fotografie smascherano il pregiudizio, ritraendo famiglie rom distinti, ben vestite, scarpe lucide e abiti da prima comunione per persone “che erano perfettamente integrate nella società”.

Fotografiche sono anche le testimonianze che mostrano ai contemporanei i brandelli di carta igienica su cui gli internati scrivevano le partiture. I campi di concentramento, infatti, racconta Spinelli, erano pieni di musica. “I nazisti usavano le orchestre per il proprio intrattenimento ma anche per mantenere l’ordine e la calma durante l’appello e le marce, oppure per accompagnare i condannati a morte o, ancora, per ingannare i prigionieri all’arrivo sui treni. Per gli internati che dovevano suonare, invece, la musica fu un atto di resistenza alla morte, significava ritrovare la dignità violata e dimenticare l’orrore anche solo per pochi istanti”. I musicisti internati, comunque, non erano trattati con più riguardo: “Dovevano suonare per 10-17 ore al giorno e, se sbagliavano, rischiavano la vita. Alcuni venivano costretti a cantare mentre lavoravano così da impedire la comunicazione tra detenuti e bloccare tentativi di organizzare rivolte”. Molti spartiti e brani di musica concentrazionaria sono stati nascosti dai detenuti stessi o tramandati oralmente. Si spaziava dalla ninna nanna alla musica classica, generi differenti, testi differenti e lingue differenti quante erano le nazionalità. Così lascia detto il violinista deportato, ebreo, Jacques Stroumsa: “Fu la musica che mi permise di sopportare l’insopportabile”.

2021-04-08T18:28:16+02:00