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Pietro Grasso incontra gli studenti dell’Iis Da Vinci di Maccarese

Intervento su legalità e testimonianza di una vita di lotta contro la mafia

FIUMICINO – “La mia esperienza di giovane magistrato antimafia mi ha segnato per il resto della vita, mi ha insegnato a fare con costanza il proprio dovere al di là del risultato. Perché nella vita ci saranno sempre delle delusioni, quando fai tanto senza ottenere nulla e pensi: ‘Chi me lo fa fare? Perché impegnarsi?’. Ma non bisogna mai perdere di vista i propri obiettivi e continuare finché non li raggiungi. Vi consegno questa esperienza perché penso sia indispensabile avere la forza di mettere da parte ciò che vi frena, anche se non dipende da voi, e andare avanti”.

Così Pietro Grasso, ex magistrato e presidente del Senato, si è rivolto questa mattina agli studenti e alle studentesse dell’Iis ‘Leonardo da Vinci’ di Maccarese, comune di Fiumicino, in provincia di Roma, durante una mattinata dedicata alla legalità.

“Questo incontro fa parte delle numerose iniziative per la memoria e la legalità che la nostra scuola organizza ogni anno- ha spiegato la dirigente scolastica Antonella Maucioni– perché siamo fermamente convinti che la scuola non debba soltanto trasmettere contenuti e competenze, ma anche insegnare a tenere gli occhi aperti per costruire giustizia e comprendere il presente”.

Prima di iniziare il suo intervento nell’aula magna dedicata a Peppino Impastato, il presidente Grasso si è sciolto il nodo alla cravatta perché, “questo è l’abbigliamento obbligatorio nei palazzi delle istituzioni, ma mi piace mettermi più a mio agio quando, come oggi, incontro voi ragazzi, che mi date la carica necessaria per portare avanti il mio lavoro”.

Partendo dalla sua esperienza di vita, Grasso ha condiviso con gli studenti la testimonianza di un giovane magistrato impegnato nella lotta alla mafia, negli anni del maxi processo di Palermo.

“Da quando su un giornale vidi la foto di una vedova accanto a una pozza di sangue, scrissi in un tema che da grande volevo diventare uomo di giustizia, fare il magistrato- ha continuato Grasso– all’epoca ancora non si sapeva cosa fosse la mafia. Ancora oggi tutta la verità non è stata accertata, ma allora proprio non si capiva il fenomeno, si conosceva la violenza della mafia, ma non si comprendeva. C’era chi diceva che si trattava di un romanzesco gangsterismo urbano, finché Buscetta, primo pentito, la chiamò ‘Cosa Nostra’”.

Grasso ha quindi ricordato un fatto di cronaca di quegli anni:

“Al mercato della Vucciria a Palermo una ballerina cecoslovacca di un night club ricevette uno sfregio al viso. All’inizio non si capì perché, poi la polizia portò in carcere il fidanzato, perché l’ipotesi era di uno sfregio connesso alla gelosia. Giorni dopo, una chiamata anonima al 113 fece ritrovare un cadavere di un ragazzo con un cartello al collo con scritto ‘Sono io che ho fatto male alla straniera, vermi come me disonorano la Sicilia’. Cosa era successo? La mafia aveva fatto le sue indagini, aveva scoperto che il colpevole era uno scippatore che voleva tagliare la sua borsa. Quale era il messaggio? La mafia aveva scoperto il colpevole e fatto giustizia, reso giustizia anche al fidanzato arrestato, per dimostrare che è la mafia che fa giustizia al posto dello Stato. Non potevo sopportare una cosa del genere, mi spinse ad impegnarmi ancora di più nel mio lavoro”.

Grasso ha ripercorso quindi gli anni del maxi processo, quando fu coinvolto come giudice a latere da Falcone e Borsellino.

“Arrivai a casa e dissi a mia moglie che la nostra vita sarebbe cambiata, che avremmo avuto uomini armati attorno a noi, che saremmo stati minacciati. Mia moglie, che sapeva quanto amassi il mio lavoro e la lotta contro le ingiustizie, mi disse di cogliere questa opportunità, e che avremmo reagito a tutto ciò che sarebbe successo. Presi quindi parte al processo, che Falcone e Borsellino hanno imposto si facesse a Palermo e non a Roma, proprio per dimostrare che i giudici sapevano resistere alle minacce. Perciò fu costruita l’aula bunker, una specie di tomba di acciaio e cemento, vetri blindati e porte corazzate”.

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Dopo un enorme lavoro d’inchiesta, il processo si concluse con una sentenza storica, con 19 ergastoli e più di 2000 anni di carcere totali, ma anche 114 assoluzioni, a dimostrare che non si trattava di una carneficina giudiziaria, ma di una valutazione attenta e sistematica delle prove. Ma la mafia non si può combattere solo con i processi, come ha sottolineato Grasso raccontando un aneddoto:

“Una volta chiesi a un imputato quando, secondo lui, sarebbe stata sconfitta la mafia. Cominciò a raccontarmi una storia, di quando un ragazzo di 28 anni andò da lui in lacrime, dicendo che la sua bambina non smetteva di piangere perché non aveva neanche i soldi per comprarle il latte. Lui allora scrisse un pizzino per far assumere il ragazzo da una ditta di costruzione, ovviamente senza contratto e in nero. Dopo una settimana il ragazzo tornò dal latitante e lo ringraziò perché ormai la bambina poteva fare sogni tranquilli, e gli chiese come potesse ricambiare il favore. Il mafioso prese la sua carta di identità, con cui avrebbe potuto comprare una macchina a suo nome, e il ragazzo rischiava così una pena di cinque anni per favoreggiamento. La morale della storia, che mi disse il mafioso, mi è rimasta impressa per sempre: ‘Finché quel ragazzo verrà da noi e non da voi, la mafia non finirà mai’. Questo perché la mafia è anche e soprattutto un fenomeno sociale, dove c’è povertà e assenza di prospettive la mafia riesce a sostituirsi allo stato e dare lavoro anche apparentemente pulito. Contrastare la povertà è l’unico modo per combattere veramente il substrato mafioso”.

Grasso ha quindi esteso la riflessione sul significato della legalità:

“La cultura della legalità non è fatta solo di regole, che certo vanno rispettate, ma è un insieme di valori e principi della nostra Costituzione, dalla tolleranza all’uguaglianza e al rispetto della diversità, perché le varie criminalità organizzate sono eclissi di legalità e libertà. La peculiarità dei giovani è proprio quella di combattere contro l’illegalità e le ingiustizie, per questo mi sento giovane dentro, anche se purtroppo non più fuori, e per questo continuo a cercare la verità”.

Il suo lungo intervento, ascoltato con attenzione dalla platea di giovani, si è concluso con un caloroso invito a non lasciarsi abbattere dalle difficoltà della vita e, sopratutto, a non restare indifferenti:

“Gramsci scrisse che l’indifferenza è il peso morto della storia. Mentre regna l’indifferenza infatti, i criminali, gli xenofobi e i prepotenti fanno il loro comodo e rendono il mondo un posto peggiore. Bisogna reagire, sempre. Dovete essere protagonisti, non spettatori del vostro tempo. Rivolgo a voi le parole che mi disse un giorno Antonino Caponnetto, magistrato che guidò il pool antimafia: vai sempre avanti a schiena dritta, ragazzo, e segui sempre la voce della tua coscienza”.

2019-11-12T14:55:53+01:00