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Vittime del terrorismo. Walter Tobagi: “I brigatisti non sono samurai invincibili”

Il ricordo del giornalista a 41 anni dalla sua scomparsa

Ferruccio de Bortoli, ricorda quel 28 maggio del 1980, come se fosse ieri: “Era un mercoledì, pioveva e faceva freddo. La primavera era stata inclemente e l’emergenza terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata persino in un cupo fenomeno atmosferico”. Fu alle 11 di quella mattina opaca, in via Salaino, che Walter Tobagi venne  raggiunto da cinque colpi di pistola esplosi da un commando di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo, composta perlopiù da componenti borghesia milanese, di cui due provenienti da famiglie di giornalisti. 

Un colpo inflitto al cuore dello Stato e a quello del  ‘buon giornalismo’ di cui Tobagi rappresentava l’emblema da quando, dopo le esperienze all’Avanti e all’Avvenire, era  sbarcato  al  Corriere della Sera dal 1972 come inviato sul fronte del terrorismo e cronista politico e sindacale,  coprendo tutte le vicende relative  agli anni di piombo. Tobagi non voleva raccontare, voleva capire: non era interessato alla matrice ideologica ma alle spinte personali e psicologiche sottese alla scelta, di alcuni lavoratori, di prendere parte alla lotta armata. Fu per questo suo desiderio di “conoscere” – secondo Giampaolo Pansa –  che fu ucciso: “Tobagi sapeva che il terrorismo poteva annientare la nostra democrazia. Dunque, egli aveva capito più degli altri: era divenuto un obiettivo, soprattutto perché era stato capace di mettere la mano nella nuvola nera”.

“Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza, dei samurai invincibili”, scriveva così Tobagi, nel suo articolo del  20 aprile 1980 intitolato ‘Non sono samurai invincibili’, all’indomani dell’arresto di Patrizio Peci, il primo di una lunga schiera di brigatisti  pentiti, che deciderà di parlare. 

Nonostante il contenuto degli interrogatori ancora tenuto segreto, il giornalista dalle colonne del Corriere della Sera, sembrava cogliere alcuni elementi di fondo che avevano caratterizzato l’organizzazione clandestina delle BR, per molto tempo protetta dall’oscurità.

Per Tobagi era chiaro che i brigadisti  avessero cercato  di far vedere che la loro lotta armata poteva essere una continuazione della lotta di fabbrica; una mossa spregiudicata che i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori avevano respinto; “Tuttavia – sottolineava il giornalista – chi vuole combattere davvero il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno”, scriveva. E la lezione fin troppo chiara – continuava – era che le lotte sindacali oltre i limiti convenzionali della legalità erano serviti agli arruolatori delle Br come un banco di prova di selezione”. 

I componenti dell’attentato al giornalista vennero catturati poco tempo dopo: Marco Barbone, killer materiale del giornalista, decise di collaborare uscendo di prigione poco dopo il processo, dopo aver contribuito all’arresto di tutti gli altri componenti dell’organizzazione. 

Alla fine del suo articolo, Tobagi scrisse che: “La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare”, ed è grazie al lavoro e al sacrificio di uomini come lui, se i confini di questa risaia sono diventati ogni giorno più chiari. 

2021-05-28T09:35:09+02:00