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ConTatto Verticale, la prima giornata italiana di arrampicata per non vedenti

Le sfide dei ragazzi di ConTatto Verticale, la prima giornata italiana di arrampicata per non vedenti.

“Quando arrampichiamo non siamo ciechi ma solo atleti”.
Le sfide dei ragazzi di ConTatto Verticale, la prima giornata italiana di arrampicata per non vedenti.
Il paraclimbing per scalare i pregiudizi e arrivare all’integrazione.

ConTatto

ROMA – Yeraldyn ha 24 anni e arrampica da novembre. Si allena una volta a settimana, di sabato. Studia diritto, canta in un gruppo musicale e suona la chitarra. La cosa più difficile per lei, all’inizio, è stato rafforzare braccia e spalle. “Perché quando arrampichi – spiega – usi soprattutto la parte superiore del corpo e prima di iniziare non avevo molti muscoli. Ora va molto meglio, arrivo a 12 metri senza stancarmi troppo”.

Per Silvia invece è la prima volta. Fa scherma da tre anni a livello agonistico, seconda classificata al campionato italiano, e la motivazione per cui è qui oggi è “semplice curiosità”: “Sono una sportiva e volevo provare una cosa diversa”.

Manuela è più giovane, ha 21 anni e studia psicologia, ormai vicina alla laurea triennale. Alla domanda perché le piace non ha dubbi: “Perché lo posso fare”.
Una risposta non così banale se si considera che Yeraldyn, Silvia e Manuela sono tre ragazze cieche e sono nella Palestra Rock it Climbing Roma in occasione di ConTatto Verticale, la prima giornata italiana di arrampicata per non vedenti ideata da Pietro Dal Pra, tra i più rappresentativi alpinisti e arrampicatori italiani, insieme a tre ragazzi della nazionale italiana Paraclimbing.

Un’iniziativa che sì è svolta domenica 21 febbraio in dieci città italiane e che Dire Giovani ha seguito nella capitale.

Una giornata per avvicinare disabilità e sport, nella convinzione che la scalata sia un’attività particolarmente adatta a non vedenti e ipovedenti. Si usa molto il senso del tatto, serve la consapevolezza del proprio corpo nello spazio, ci si muove lentamente, si è sempre di fronte a nuovi problemi, ed è allo stesso tempo uno sport individuale e di squadra (in particolare se non si vede, perché si è assicurati da un compagno e guidati dalla voce di un partner).

Tutte motivazioni che qui in palestra confermano ragazzi e istruttori, non vedenti e normodotati. Ma il vero motivo per cui l’arrampicata li conquista lo spiega Silvia Tombolini, 32 anni, coordinatrice del Comitato Giovani dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Roma: “Fare climbing ti mette nelle stesse condizioni di un atleta che vede: se si usa una benda, siamo ad armi perfettamente pari. In parete non ci sono ciechi e vedenti, ma solo atleti che si sfidano”. “Non è così in tutti gli sport”: prosegue. “In alcuni, come il baseball, le regole per noi vengono modificate, anche di molto. In questo caso, come per la scherma, non ci sono né aiuti né regole diverse. Siamo tutti uguali”.

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Un concetto confermato da Massimo Rosata, educatore sportivo Cip (Comitato Italiano Paralimpico): “Per un disabile la cosa più importante è sentirsi uguale agli altri. Anche solo per un’ora a settimana, anche solo per quei 60 minuti che si arrampica. Nei miei corsi si scala insieme, ciechi e vedenti, e ci si arricchisce entrambi. I secondi sono entusiasti di salire bendati, per loro è un gioco, un divertimento”. “La cosa più bella che succede in parete – sottolinea – è scalare e vincere i pregiudizi. E come tutti gli sport superare i propri limiti, raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati. Chiudere una via e arrivare in cima è lo scopo di ogni atleta di climbing, ma ogni volta, e questo vale per tutti, c’è in gioco molto di più”.

Più si parla e ci si confronta più si capisce che lo sport ha il grande merito di annullare le differenze. E far parlare un linguaggio unico.

Antonella Strano, 30 anni passati ad arrampicare e Presidente regionale Fasi (Federazione arrampicata sportiva italiana), ne è infatti convinta: “Fare climbing è un modo per accrescere l’autostima, sentirsi più sicuri e più forti, un mezzo di crescita personale. E questo vale per tutti”.

Sarà vero, infatti, che una volta acquisito il gesto tecnico i non vedenti sono più bravi perché hanno una sensibilità maggiore su mani e piedi; è sicuramente giusto che scalare è importante per acquisire maggiore consapevolezza dello spazio. Ma quando Gianmario – in una palestra di arrampicata per la prima volta – chiede dello spirito goliardico del climbing, si informa se è vero che dopo ogni scalata si beve e si va a mangiare insieme, alla fine si capisce che senza vista o con in molti cercano le stesse cose: un’occasione per stare insieme e divertirsi.

(PHOTO CREDITS: Pierluigi Zolli)

2017-05-12T17:19:09+02:00