Il Laboratorio integrato “Piero Gabrielli”: teatro che supera le differenze

Diregiovani.it intervistato il regista e curatore, Roberto Gandini

Piero GabrielliROMA – “Non nasce teatro laddove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti. È li che qualcuno ha bisogno di stare ad ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire a lui”.

Le parole del grande drammaturgo francese Jacques Copeau, somigliano molto, moltissimo allo spirito che da oramai più di vent’anni permea una delle iniziative culturali di maggiore lustro che Roma può annoverare sotto la voce “spettacolo ed integrazione”. Perché altro non è, il Laboratorio Teatrale Integrato “Piero Gabrielli”. Qui, rispettando le indicazioni e le direttive di uno dei più illustri registri del nostro movimento teatrale, qual è Roberto Gandini, ragazzi disabili e non, selezionati in base al proprio talento ed alla propria attitudine al teatro ed alla recitazione, portano sui palchi dei più prestigiosi teatri romani, il frutto di mesi e mesi di duro lavoro, quello per cui si crea e si sostanzia una compagnia teatrale.

Uno spettacolo a tutto tondo: dai classici del nostro teatro fino a produzioni nuove di zecca, ascrivibili al talento ed alla curiosità di Gandini e del suo staff. Un passo indietro per capire quelli in avanti: il Laboratorio prende il nome da Piero Gabrielli, figura a dir poco eclettica della Roma degli anni Sessanta e Settanta. Di professione rugbista, colonna della Roma Rugby e della Nazionale Italiana, ma anche ristoratore, impresario, intellettuale. Da sempre però estremamente sensibile alle persone in difficoltà, a chi, impedito dalla disabilità, restava ai margini della società.

Dalle note biografiche disponibili sul sito del laboratorio, sappiamo che “nel 1974 trasformò una vecchia trattoria di Via Margutta , il Charlie Brown”, nell’ “Osteria Margutta”, facendola diventare in poco tempo punto di riferimento dell’ambiente culturale romano frequentato dai maggiori rappresentanti dell’arte, della letteratura e dello sport degli anni Settanta, che qui si incontravano, discutevano, e dal confronto di idee e dallo scambio di opinioni, nascevano l’arte, l’impegno sociale, la solidarietà”.

Gabrielli, colpito in famiglia da un problema di disabilità, però, non si accontentava: l’anno successivo fondò l’associazione “Mille bambini a Via Margutta”, a cui aderirono artigiani, pittori, galleristi, antiquari e commercianti della prestigiosa via romana e che da lui incoraggiati si riunirono in un Comitato promotore per dare impulso allo studio e al sostegno delle diverse forme di disabilità attraverso proposte ed iniziative specifiche. Cinque anni più tardi, ecco il suo “capolavoro”: a margine di un incontro pubblico, riuscì a strappare all’allora direttore artistico del Teatro di Roma, Luigi Squarzina, la promessa della costituzione di un laboratorio teatrale “per ragazzi con e senza problemi di comunicazione”, che attraverso il teatro e la sua inesauribile carica di impegno e positività, spezzasse gli steccati nei quali erano confinati i ragazzi disabili.

Dopo trentasette anni, il Laboratorio (che dal 1995, anno della sua scomparsa, porta il nome del suo promotore) è più che mai sulla breccia, rappresentando un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale. Diregiovani.it ne ha discusso con il regista e curatore, Roberto Gandini: ecco la nostra intervista.

Roberto, come e quando nasce l’esperienza del teatro integrato qui a Roma?

“Direi in due tempi, uno nazionale ed uno più locale. Il primo, negli anni Ottanta, con l’applicazione della “legge Falcucci” (la legge 517/77, che sanciva il diritto di tutti i portatori di handicap alla frequenza scolastica, ndr) che scompagina in parte il concetto di disabile nella scuola italiana, rendendolo equiparabile al resto degli alunni. Il secondo, con l’opera di Piero Gabrielli, capace, negli anni Ottanta, di creare quella giusta connessione con le istituzioni culturali e politiche della città. Amo ricordare come nel maggio 1982, una ventina di ragazzi dagli otto ai sedici anni, tredici dei quali disabili, partecipanti al Laboratorio Teatrale Integrato, portarono in scena al teatro Argentina, la commedia di Aristofane “Gli uccelli”, mentre l’anno successivo, sempre all’Argentina, bissarono l’esperienza con “La tempesta” di William Shakespeare. Il risultato fu straordinario, ma con il sopraggiungere delle giunte Sbardella-Giubilo, l’esperienza si arenò bruscamente. Sarà con la prima giunta Rutelli, e nello specifico con l’assessore Amedeo Piva che propose all’allora direttore del Teatro di Roma, Luca Ronconi, di ripartire con il Laboratorio, che il “Piero Gabrielli” ritornò alle sue attività. Mi fu chiesto se me la sentivo di coordinare il tutto. Partimmo, e da allora sono ventitré anni che siamo in pista”.

Ventitré anni sono molto tempo. Come sta, oggi, il “Piero Gabrielli”?

“Quest’anno, per la prima volta, facciamo molta fatica, una fatica “amministrativo-burocratica”. Il nostro assessorato di riferimento, quello delle Politiche Sociali, con la nuova giunta e dopo gli ultimi scandali, ha delle procedure più dettagliate, necessarie, per carità, per garantire trasparenza e buone pratiche, però spesso e volentieri difficili da armonizzare con i temi del nostro lavoro. Continuiamo, però, senza cedere un passo. Va comunque detto che il nostro laboratorio si fonda sulla sinergia di tre soggetti che sono, il Comune di Roma, il Teatro di Roma e l’Ufficio Scolastico Regionale. Basta, però, che un solo dei soggetti coinvolti “rallenti” un po’, che tutto a sua volta si faccia più farraginoso”.

Qual è il vostro maggiore bacino d’utenza? Come si arriva a far parte del “Piero Gabrielli”?

“Faccio un piccolo passo indietro: con i ritardi burocratici di cui abbiamo sofferto in questa prima parte di stagione, quelli che noi chiamiamo i “laboratori decentrati”, quest’anno non sono partiti. Per la prossima stagione dovremmo aver risolto, ma quest’anno è stata dura. A fianco di queste realtà, esiste poi il Laboratorio che noi chiamiamo “pilota”, quello per intenderci che termina il suo lavoro col saggio al teatro Argentina o al teatro India. I nostri primi partner sono le scuole; infatti il progetto si divide, amministrativamente, in due tronconi: la parte del coordinamento, della gestioni delle sedi, è curata dal Teatro di Roma; la parte invece afferisce all’Ufficio Scolastico Regionale che riceve fondi per fare i laboratori nelle scuole”.

Come si compone, dunque, quella che poi diventa una compagnia di teatro integrato, divisa cioè tra normodotati e portatori di handicap?

“All’inizio dell’esperienza, l’integrazione avveniva anche con la presenza di due attori professionisti, che aiutavano a costituire uno spettacolo di qualità. Ora stiamo utilizzando la formula che prevede la presenza di un gruppo stabile di ragazzi con esperienza a cui si aggiunge invece un altro gruppo di nuovi. Collaboriamo con una scuola per anno; quest’anno la scuola è il “Confalonieri-De Chirico”, dove siamo andati a spiegare il progetto , a cui sono seguite delle selezioni che ci hanno dato un gruppo su cui puntare. Siamo una compagnia di teatro integrato, metà dei ragazzi sono portatori di handicap. È il nostro obiettivo ma contemporaneamente il nostro risultato”.

I ragazzi sono consapevoli di partecipare al “Piero Gabrielli”, una vera istituzione in materia?

“Piano piano. Per molti è una cosa davvero nuova, ed a molti l’esistenza del Gabrielli risultava sconosciuta. Li colpisce molto, e li cominciano a capire il peso specifico dell’esperienza, il doversi confrontare con “l’Argentina”. È la prima cosa che dico loro, mettendoli in guardia sull’importanza del teatro dove andremo a recitare. Proprio per questo progressivamente “alzo l’asticella”, ma debbo dire che alla fine mi seguono con attenzione”.

Qual è lo stato di salute del teatro integrato in Italia?

“In Italia c’è una realtà amatoriale fortissima. Ci sono poi delle eccellenze, ad esempio Pippo Del Bono, Raffaello Sanzio, però non c’è altro. Secondo me, viviamo una fase di transizione rispetto al fenomeno del teatro integrato. Un esempio: lo scorso anno ho tenuto delle lezioni al corso di perfezionamento per attori organizzato dal teatro di Roma. Del gruppetto previsto si sono presentati solo in quattro: questo mi ha dato la consistenza dello stato delle cose. Come dicevo prima, c’è una parte amatoriale – non da intendersi come livello – condotta da professionisti di grande qualità come Beatrice Faedi, Antonio Viganò, e molti altri che mi lascia ottimista sullo stato di salute del teatro di ricerca italiano”.

In conclusione, il 1 ed il 2 Giugno sarete in scena al teatro Argentina con lo spettacolo “Infuturarsi”. Cosa dobbiamo aspettarci?

“Infuturarsi è uno spettacolo “a quadri”, proprio per consentire ai diversi linguaggi teatrali di coesistere. Ci sarà un’operina buffa intitolata “La fuga dei cervelli”, in cui il protagonista Fausto, per non diventare un bamboccione, cerca di mettere in fuga il suo cervello ma, per la famosa storia dei coperchi e delle pentole, interviene il diavolo Mefistone a complicare le cose. C’è anche una storia di cyberbullismo, che i ragazzi hanno voluto inserire perché, come ha detto uno di loro: “Sia che subisci, sia che fai il bullo, quelle storie fregano tutti”. Stabilito che ci saremmo occupati di bullismo, dovevamo trovare la trama giusta e il giusto finale. E qui ci è venuta in aiuto un’idea di Gianni Rodari usata nel libro “Dieci storie per giocare”, in cui in ogni racconto l’autore mette tre finali. E così anche la nostra storia “bulla” avrà tre finali. Invece nel quadro che noi chiamiamo “I monologhini”, sei ragazzi danno vita ad altrettanti personaggi che hanno in comune l’autoironia e la malinconia. Si va dal ragazzo che aspetta un autobus che non arriverà mai perché c’è sciopero e lui non lo sa, alla studentessa sconsolata che all’ora di ricreazione paragona la sua vita a quella di una “stupida lattina”, incastrata in una macchinetta delle bibite, al ragazzo con disabilità dimenticato in un corridoio scolastico da un’insegnante distratta e altri personaggi tutti da scoprire. Non abbiamo certo tralasciato il tema dell’amore, o meglio della paura di non trovare amore; forse però bisognerebbe parlare di ansia d’amore, del timore di essere esclusi dal gioco dell’amore. Ci è sembrato interessante il paragone fatto da un ragazzo con disabilità che diceva di sentirsi come un soprammobile. Nel nostro spettacolo quel pensiero si è trasformato in una battuta: “Ogni tanto mi sembra di essere come una candela che nessuno accenderà mai, bella, intatta, con lo stoppino bianco. Ma le candele vanno accese, vanno consumate, altrimenti a che servono?”.

 

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