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Roma, i pittori anonimi del Trullo dalla strada alle scuole

Intervista al fondatore Mario D'Amico

ROMA – Sono passati sette anni da quando hanno iniziato a dipingere i muri grigi del Trullo, borgata della zona sud della capitale, e da allora non si sono mai fermati, riempiendo di colori altre periferie, altre piazze e moltissime scuole. Sono i Pittori Anonimi del Trullo (PAT) che, come si legge sulla loro pagina sul sito di ‘Italia che cambia‘, si definiscono “un gruppo di cittadini che vuole dare un volto nuovo al proprio quartiere”.

Collaborano anche con i ‘Poeti der Trullo’, l’ormai celebre collettivo di poeti dello stesso quartiere che persegue la poetica del ‘MetroRomanticismo’, che arricchiscono i murales con le loro frasi dialettali in rima. Abbiamo intervistato Mario D’Amico, fondatore dei Pittori Anonimi, che con simpatia e spontaneità ci ha raccontato la loro storia.

– Come e perché sono nati i Pittori Anonimi del Trullo?
“Il Trullo è il quartiere dove sono nato, da cui me ne sono andato e dove poi sono tornato a vivere. E quando sono tornato mi sono reso conto che non era cambiato nulla, ho sentito l’impulso di fare qualcosa. Così una notte di febbraio 2013 abbiamo fatto il nostro primo pezzo, incappucciati e anonimi, perché stavamo facendo una cosa vietata, che non sapevamo se avrebbe fatto arrabbiare gli abitanti o le istituzioni”.

– Come è stata la reazione del quartiere?
“Il giorno dopo la reazione è stata positiva e siamo andati avanti. Eravamo a febbraio, quando fa freddo e la gente resta a casa e chiude presto le persiane la sera, così continuavamo a uscire di notte e nessuno ci vedeva. Eravamo diventati una leggenda nel quartiere, le persone si chiedevano ‘ma chi sono questi, che non li vede nessuno?’, e ‘perché non lo fanno anche sul mio palazzo?’. Poi è arrivata l’estate, quando la gente sta con le finestre aperte fino a mezzanotte, e alla fine ci abbiamo dovuto mettere la faccia. Dopotutto facevamo solo delle belle opere sui palazzi, prima ci nascondevamo e poi abbiamo pensato che, se una scritta volgare su un palazzo non veniva tolta da più di vent’anni né dagli abitanti né dal Comune, che colpa avevamo noi se la coprivamo con qualcosa di più bello? E allora siamo usciti allo scoperto, abbiamo iniziato a dipingere anche di giorno. Col tempo siamo andati anche in altri quartieri e abbiamo iniziato a lavorare nelle scuole, ormai più di un centinaio”.

– Come si sviluppano i vostri interventi nelle scuole?
“Prima di tutto incontriamo le mamme e i comitati dei genitori, che spesso ci contattano dalla nostra pagina Facebook. A quel punto parliamo anche con la preside e con le maestre, a cui chiediamo di elaborare un tema con i bambini, che di solito pensano all’ambiente, all’inquinamento, ai migranti o all’uguaglianza. Poi ogni classe lavora in modo autonomo, approfondendo la tematica scelta, e alla fine del progetto insieme ai bambini dipingiamo i muri delle scuole. Se ci chiamano per fare delle opere nostre da soli diciamo di no, perché vogliamo che i bambini si sporchino le mani, che dipingano con noi le loro idee, quello che hanno progettato loro”.

– E i bambini come reagiscono?
“Io dico sempre che gli regaliamo un giorno per la vita; che non scorderanno mai. Anche perché alla fine di questa operazione, durante il fine settimana, facciamo venire i genitori per pulire tutti insieme la scuola, tagliare l’erba, prendersi cura degli spazi. E diventano così due giorni di festa dentro la scuola, con i genitori che cucinano a casa e portano da mangiare”.

– Quindi in questo modo ricreate anche un legame di comunità?
“È proprio quello che facciamo. Perché andiamo in scuole, anche grandi, in cui i genitori si dicono solo ‘buongiorno e buonasera’, e dopo questa esperienza invece restano in contatto e spesso continuano con altri progetti collettivi. Una volta che si mettono d’accordo per organizzare questo momento di festa spesso si attiva la socializzazione. Questo cerchiamo di fare, senza chiedere soldi a nessuno”.

– I bambini imparano così che la scuola è un bene comune?
“Esatto. Prima di cominciare, ogni volta faccio uscire tutti i bambini all’aperto, prendo un qualche oggetto che un bambino tiene in mano, così che mi dice ‘oh quello è mio!’, e io gli rispondo ‘e la scuola di chi è?’. Di solito rispondono che la scuola è del Presidente della Repubblica, o del preside. E io gli faccio capire che non è così, che la scuola è di tutti loro perché anche i loro genitori e i loro nonni hanno pagato le tasse per costruirla e tenerla in piedi, ‘per questo la dovete tenere pulita e rispettarla’, gli dico. È questo, alla fine, il senso di ciò che facciamo”.

2020-05-11T14:47:42+02:00